«È tuo» – «No, è tuo!». 24ª Domenica del Tempo Ordinario (C)

è un problema tuo!

Quante volte ci capita di allungare in avanti le braccia in segno di rifiuto e di dire «è un problema tuo»? Ma Dio vuole che sentiamo i fratelli come nostri.

Omelia per domenica 11 settembre 2022

Letture: Es 32,7-11.13-14; Sal 50 (51); 1Tm 1,12-17; Lc 15,1-32

Abbiamo sentito mille volte questa parabola (quest’anno anche nella 4ª Domenica di Quaresima), e forse sembra uscirci dalle orecchie, ma ogni volta che ci lasciamo inondare dalla Parola con docilità, ci rendiamo conto che Essa ha qualcosa di nuovo da dirci… almeno, a me capita sempre così.

Per questo, stavolta non mi soffermerò sul tema della festa (come ho fatto in Quaresima), o quello della chiamata alla paternità (che ho accennato tre anni fa), o della misericordia e della speranza di Dio (addirittura 9 anni fa)…

Solo un aggettivo possessivo?

Questa volta, la lettura in parallelo della prima lettura e del vangelo mi ha suggerito di soffermarmi su una piccola parolina ripetuta più volte: “tuo”.

In sé, “tuo” è semplicemente un aggettivo possessivo, ma nei testi di questa domenica assume un ruolo determinante, perché “rimbalza” da una bocca all’altra, in una sorta di “rimpallo di responsabilità”.

È mio o è tuo?

Essendo dei tremendi egoisti fin da piccoli, noi siamo portati a dire continuamente «questo è mio»… Crescendo – però – abbiamo imparato a dire altrettanto spesso «è tuo».

Lo diciamo quando vogliamo marcare nettamente le distanze e allontanarci da qualcosa (o una situazione) che ci mette in imbarazzo o “nei casini” (come diciamo volgarmente).

Quante volte – infatti – ci capita di allungare in avanti le braccia in segno di rifiuto e di dire «non mi riguarda: è un problema tuo»?

Rimpallo di responsabilità

Anche nei testi che ascoltiamo oggi c’è questo “giochetto” del rimpallo di responsabilità.

Nella prima lettura Dio – rivolgendosi a Mosè – dice:

«Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito».

Si capisce chiaramente che l’aggettivo “tuo” non indica la comune appartenenza di Mosè e degli Israeliti alla stessa gente, ma è una ri-consegna (provocatoria) nelle mani del Patriarca di un popolo che Dio non riconosce più come Sua proprietà.

È come se il Signore – di fronte all’infedeltà di Israele – si volesse rimangiare le Sue promesse di alleanza:

«Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio. Saprete che io sono il Signore, il vostro Dio, che vi sottrae ai lavori forzati degli Egiziani» (Es 6,7).

Solo una provocazione

Come accennavo tra parentesi, quella di Dio è – ovviamente – una provocazione, fatta per indurre Mosè alla protesta e all’intercessione:

«Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente?»

Mosè si affretta a ricordare a Dio che il popolo è Suo, e che Lui l’ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto, e Gli ricorda le Sue promesse antiche:

«Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso…»

Ovviamente Dio non aveva bisogno di questa “ramanzina” per ricordarsi delle Sue promesse: voleva solo “trascinare” Mosè nel profondo del Suo cuore per fargli provare i Suoi stessi sentimenti.

Dio si pente?

Il brano conclude con un’annotazione che rappresenta Dio con tratti molto umani, quali il pentimento e il ripensamento:

Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.

Ma noi che leggiamo a tanti anni di distanza, e soprattutto dopo la predicazione di Gesù (che ci ha rivelato il vero volto del Padre), sappiamo perfettamente che Dio aveva già nel cuore l’intenzione ferma di perdonare il Suo popolo e dargli un’altra possibilità.

Quando l’uomo dice «è tuo»…

Nel brano di vangelo la situazione è totalmente diversa: è l’uomo – stavolta – che dice a Dio «questo è un problema tuo»; e lo dice sul serio, non come una provocazione.

Mi riferisco alla parte finale della parabola, quando il padre esce a pregare il figlio maggiore per convincerlo ad entrare in casa a far festa assieme a tutti gli altri, ma – come risposta alle sue suppliche – ottiene un’accusa tremenda:

«ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso».

Anche qui è fin troppo chiaro il significato di quel “tuo”: «quello è tuo figlio, non mio fratello!»

C’è il totale disconoscimento di ogni tipo di legame (parentale o affettivo):

  1. con il fratello che se n’era andato di casa (e che ora è semplicemente un mascalzone da punire),
  2. con un padre che agisce in modo sconsiderato (e quindi ora non è altro che un padrone ingiusto, che premia i peccatori invece dei figli in gamba).

È questa la tragedia: quando gli uomini smettono di sentirsi fratelli e solidali tra loro, cessano pure di credere in Dio come Padre (e viceversa).

Quando Dio dice «è tuo»

Di fronte al rifiuto e alla chiusura, Dio cerca di convincere l’uomo a sentire ancora e comunque il proprio simile come “suo” fratello, nonostante abbia sbagliato:

«Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

In questa supplica accorata si svela il perenne desiderio e tentativo di Dio di riannodare i fili spezzati della paternità («Figlio, tu sei sempre con me…») e della fraternità («questo tuo fratello»).

Similitudini

In realtà, anche se le situazioni del vangelo e della prima lettura sembrano diverse, al centro di entrambi i brani c’è l’intento di Dio di spingere l’uomo a sentire il suo simile come proprio fratello, anche (e soprattutto) quando le circostanze sono sfavorevoli.

Solamente nella prima lettura (che paga certamente una visione piuttosto antropologica della storia e una altrettanto antropomorfa rappresentazione dei sentimenti di Dio), il Signore sembra prima provocare Mosè a ragionare in termini semplicemente “umani”:

«Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione».

Ma il senso vero anche di questa ulteriore provocazione è ancora una volta l’invito di Dio all’uomo a mettersi nei Suoi panni, come se dicesse

«cosa faresti tu se fossi al mio posto? Non faresti il “castigamatti”? …Ma io non darò sfogo all’ardore della mia ira… perché sono Dio e non uomo» (cfr Os 11,9).

Il desiderio del Signore

Il desiderio del Signore è che – di fronte al fratello che sbaglia – tutti reagiscano come Mosè, ovvero: provando la Sua stessa compassione, sentendo che non c’è altra via di salvezza per il peccatore che l’incontro con la misericordia infinita di Dio, il quale «non vuole la morte del malvagio, ma che si converta e viva» (cfr Ez 33,11).

Rimettendo il popolo nelle mani di Dio, Mosè ha dimostrato grande solidarietà coi suoi fratelli (non cedendo alla tentazione di ergersi sopra di loro come migliore o più santo) e – allo stesso tempo – grande sintonia col cuore misericordioso di Dio.

Per questo il Signore gli concederà di conoscerlo per nome:

il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore…: «il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (cfr Es 34,5-7).

Finché non ci metteremo nei Suoi panni non capiremo il cuore di Dio, e ci ostineremo a mormorare – come gli scribi e i farisei «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».