A due a due. 15ª Domenica del Tempo Ordinario (B)

a due a due

Letture: Am 7,12-15; Sal 85; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13

Non era andata un granché bene l’esperienza di predicazione a Nazaret (l’abbiamo ascoltato domenica scorsa)… e se c’era rimasto male Gesù, sicuramente non ne saranno stati entusiasti nemmeno i suoi discepoli.

Dalle stelle alle stalle

Dalle “stelle” e dall’euforia di Cafarnao (cfr 4ª Domenica del Tempo Ordinario) erano precipitati nelle “stalle” di Nazaret, nel rifiuto, nel pregiudizio, nella maldicenza.

Proviamo ad immedesimarci: subito dopo quel clamoroso flop, con che spirito avranno accolto i Dodici l’invio in missione?

E noi – al posto loro – saremmo partiti?

È un bell’esame di coscienza quello che ci viene richiesto: come reagiamo di fronte ai fallimenti della nostra vita (sia dal punto di vista umano che da quello cristiano)?

Quante volte ci “rintaniamo” nello sdegno delle nostre delusioni?

Quante volte – come Chiesa e come singole comunità cristiane – di fronte al rifiuto del mondo contemporaneo ci “barrichiamo” in sacrestia, dietro pesanti cortine d’incenso?

E invece Gesù ci spinge a fare il movimento inverso: ci invita ad uscire, anzitutto da noi stessi.

L’esodo necessario

Tutta la Storia delle Salvezza è un invito di Dio ad uscire, ad abbandonare le proprie certezze… pensiamo ad Abramo:

Il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre…» (cfr Gen 12,1-6)

Pensiamo a Mosè:

Il Signore disse a Mosè «…va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!» (cfr Es 3,1-12)

Pensiamo al profeta Elia:

[Elia] s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb (cfr 1Re 19,1-18).

È proprio nel momento più duro, di stanchezza e incertezza (umana, spirituale e di fede) che occorre alzarsi e mettersi in cammino. Come dicevo domenica scorsa, l’antidoto per superare gli ostacoli è rimboccarsi le maniche e darsi da fare.

Quante volte Papa Francesco ci ha chiesto di essere una “Chiesa in uscita”? È davvero necessario compiere un “esodo”: uscire da noi stessi per andare agli altri.

La missione continua

prese a mandarli…

Mi ha colpito il verbo usato nel vangelo di oggi per indicare la missione dei Dodici: «cominciò a mandarli» sottintende un’azione iniziata ma non ancora compiuta, e quindi è come dire che Gesù ha iniziato a inviare coppie di discepoli quel giorno, ma non ha ancora smesso.

Ascoltare oggi questo brano è come mettersi in fila, in attesa di sentire anche il proprio nome e cognome: è un elenco interminabile, che comprende tutti i cristiani, non solo alcuni prescelti!

I laici fanno sempre l’errore di pensare ai discepoli come i predecessori dei vescovi e dei preti, ma nel Vangelo – oltre ai Dodici – si parla chiaramente di numerosi altri, inviati alla stessa maniera:

Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi (Lc 10,1).

La trasformazione richiesta

Tutti siamo discepoli del Signore, ma non si può rimanere per sempre “discepoli” (ovvero “alunni”): bisogna prepararsi a diventare “apostoli” (ovvero “inviati”).

Fin dall’inizio del suo vangelo, Marco aveva sottolineato la cosa:

Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni (Mc 3,13).

È relativamente facile mettersi ai piedi di Gesù e ascoltare il Suo insegnamento, ma la cosa non può essere fine a se stessa: accogliere l’annuncio del Regno è finalizzato ad annunciarlo a nostra volta.

Il cristianesimo non è una sorta di filosofia di vita da apprendere, ma un’esperienza da condividere.

Un vero cristiano si riconosce dal fuoco che gli arde dentro, e che gli fa dire – come Pietro e Giovanni davanti al Sinedrio:

«Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4,20).

C’è questo fuoco in noi?

Le condizioni per l’annuncio

Forse la tentazione di voler rimanere per sempre “alunni uditori” del messaggio del Vangelo è data dalla difficoltà della missione, specialmente nel mondo di oggi, che ci appare totalmente scristianizzato e refrattario alla Buona Novella.

Ma il testo che abbiamo ascoltato è pieno di indicazioni utili che ci aiutano a capire come questo annuncio contenga in sé una forza irresistibile, a patto che se ne osservino le modalità indicate dal Maestro.

La Comunione

Leggendo il testo si fa l’errore di andare subito alle raccomandazioni pratiche di Gesù su come presentarsi per annunciare il Regno; invece la prima condizione necessaria perché l’annuncio sia credibile sta già nell’invio stesso:

prese a mandarli a due a due

I credenti non possono essere dei battitori liberi, slegati da ogni contesto: la loro credibilità si gioca anzitutto sul cercare di costruire comunione:

«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

Ricordo che qualche anno fa, facendo vita comune con altri due sacerdoti, alcuni parrocchiani mi dissero: «Si vede che andate d’accordo e vi volete bene voi tre sacerdoti».

Sono rimasto sorpreso, mi sono commosso e ho ringraziato il Signore: era quella la testimonianza più bella e genuina, più di mille prediche e piani pastorali!

È la Comunione a rendere testimonianza della verità delle nostre parole.

Gesù scommette su questa “convivenza” fatta per amore al Vangelo, e pone quel «a due a due» come prima condizione dell’annuncio.

Certo, non è facile cercare di costruire questa comunione tra due persone che non si sono scelte (immaginiamo se Giovanni fosse finito con Giuda Iscariota, che giudicava un ladro!), ma è la forza di questa comunione che vince gli spiriti impuri, anzitutto quelli che abitano dentro di noi: la “monnezza” fatta di invidie, gelosie, maldicenze, dispetti reciproci.

Quante pagine di Vangelo cancelliamo a causa delle nostre divisioni!

L’essenzialità

Gesù chiede ai Suoi di essere sobri, essenziali: un’essenzialità dove contano le persone, non le cose.

Se bisogna annunziare la fede in Dio, Padre buono e premuroso, non si può far altro che viverla in prima persona:

«Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno» (Mt 6,31-32).

Di quanti mezzi, strutture e strategie si appesantisce la Chiesa da anni! E tutto questo – oltre a non riuscire mai a star dietro e competere coi mezzi del mondo – non fa altro che oscurare il “contenuto” del messaggio: Dio!

Guardando la Chiesa degli ultimi anni, mi sembra di rivedere l’immagine di Davide che prova inutilmente ad andare incontro a Golia indossando l’armatura di Saul… (cfr 1Sam 17,38-40)

Invece, arrivare davanti agli uomini sporchi, impolverati, sudati e affamati (come saranno stati i Dodici), ci mette in quella condizione di fragilità che testimonia la grandezza di Dio:

«Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù SignoreNoi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,5.7).

Dimorare

«Dovunque entriate in una casa, rimanetevi»

Gesù chiede ai discepoli di rimanere, di stare, di “vivere con” le persone a cui si porta l’annuncio. Anche questa è una condizione fondamentale perché il Vangelo attecchisca.

Un prete che conosco è stato diversi anni in missione in Africa, e mi diceva di come esistano due tipi di missionari: quelli che arrivano e “ribaltano” tutto come si rivolta un calzino e poi se ne vanno, e quelli che invece sanno “stare”, rimanere, condividere in tutto e per tutto la vita delle persone alle quali sono stati inviati.

Questa è la missione!

È facile fare “di fiore in fiore” come le farfalle… più difficile è rimanere e affrontare il quotidiano, mostrando come il Vangelo non sia una “bella storiella” che si ascolta la domenica, ma la Verità che incontra la vita concreta.

Questo è il significato di “parrocchia”: Dio abita in mezzo alle nostre case.

In caso di rifiuto…

«Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».

L’ultima istruzione di Gesù sembra un invito alla vendetta, ma non è così.

D’altronde, sarebbe piuttosto strano che Gesù chiedesse ai Suoi di comportarsi in modo dissimile dal Suo (che non se n’era andato in modo stizzito da Nazaret).

L’invito a scuotere la polvere da sotto i piedi è la raccomandazione di non portarsi dentro nessun rancore, nessun ricordo negativo che possa appesantire il cuore.

Quante volte (anche noi preti) ce la leghiamo al dito se le persone ci trattano male, se non apprezzano quello che facciamo.

Quante volte facciamo confronti spiacevoli e pesanti con le realtà e le occasioni che ci sembrano essere state migliori.

Il rifiuto del Vangelo è preventivato da Gesù:

«Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra» (Gv 15,20).

Ma davanti al rifiuto ci è chiesto un atteggiamento che è – a sua volta – annuncio: il discepolo testimonia l’Amore misericordioso di Dio, perciò non conserva nel cuore nessun desiderio di vendetta.

Scossa la polvere di dosso, si riparte per continuare ad annunciare la Parola.