Apriti! Ma anche… chiuditi! 23ª Domenica del Tempo Ordinario (B)

Effatà - Apriti!

Letture: Is 35,4-7; Sal 146; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

Come spesso capita, anche il brano che ci è proposto oggi si trova esclusivamente nel secondo evangelo, e mi piace poter dire – ancora una volta – che è frutto di un ricordo tutto personale, da testimone oculare, del mio caro apostolo Pietro (di cui Marco era lo scrivano).

Lo si intuisce dalla descrizione meticolosa dei gesti di guarigione e – soprattutto – dal comando centrale di Gesù, riportato nella lingua originale (l’aramaico): «Effatà».

Riscoprire il proprio Battesimo

Marco scrive per la comunità di Roma, e – in particolare – per i Catecumeni che si stanno preparando a ricevere il Battesimo, perciò questo episodio ha un’importanza unica, tanto che il rito dell’effatà è entrato ufficialmente nel Rituale Battesimale della Chiesa cattolica:

dopo aver consegnato la veste bianca e la candela accesa alla fiamma del Cero Pasquale, il celebrante tocca, con il pollice, le orecchie e le labbra del battezzato, dicendo:

Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti,
ti conceda di ascoltare presto la sua parola,
e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre.

Perciò siamo invitati a meditare questo brano per riscoprire il dono del nostro Battesimo.

Muti perché incapaci di ascoltare

Il protagonista del brano di oggi è un sordo-muto.

Nel greco tutto particolare di Marco – letteralmente – c’è scritto «sordo e balbuziente» (termine che compare solo un’altra volta nella Bibbia: proprio nel testo di Isaia che ascoltiamo come Prima Lettura: segno che Marco lo vuole prendere come punto di riferimento diretto).

“Balbuziente”, perché – nella maggioranza dei casi (eccetto altri incidenti o malformazioni fisiche) – una persona è muta proprio in quanto sorda: non avendo mai avuto la possibilità di udire il suono delle parole, non è capace di apprenderle e riprodurle a sua volta… tutt’al più può “balbettare”, emettendo qualche suono sconclusionato.

Questa non è solo una riflessione di tipo logico o medico-diagnostico, ma l’invito a riflettere subito ad un livello più spirituale: quand’è – infatti – che non riusciamo a comunicare? Quando manca l’ascolto, da parte nostra e degli altri.

L’incomunicabilità del nostro mondo nasce proprio da questo difetto-peccato: l’incapacità di ascoltare.

L’uomo che Gesù sta per guarire è chiuso in se stesso, non può comunicare con gli altri, ma la causa (sembra farci intendere il vangelo) è più spirituale che non fisica.

Siamo noi quel sordomuto, quando ci chiudiamo in noi stessi, isolandoci dagli altri e rifiutando di entrare in rapporto con loro.

Per guarire da questa condizione, per uscire dal nostro isolamento sociale, abbiamo necessariamente bisogno di un Medico, non possiamo guarirci da soli: occorre che venga a toccarci Gesù, con la Sua grazia.

Ci si salva solo tutti assieme

La prima sottolineatura del racconto è molto bella:

Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano.

Il malato è condotto a Gesù da alcuni suoi amici. Alcuni capitoli prima c’è un racconto simile (cfr Mc 2,1-4): quattro persone portano un paralitico davanti e Gesù calando la sua barella davanti al Maestro dopo aver fatto un’apertura nel tetto della casa.

Se in quel caso era comprensibile il bisogno di altre persone (perché un paralitico non può deambulare), qui verrebbe da pensare che il sordomuto sarebbe potuto andare anche da solo da Gesù, e farsi capire a gesti…

Invece no: l’evangelista ci vuole suggerire un aspetto fondamentale dell’essere cristiani: sono sempre altri a condurci a Cristo, a parlarci di Lui, a indicarcelo. La fede è un passaparola.

Vivere l’aspetto comunitario della fede è una grazia! Ma ci vuole umiltà per lasciarsi condurre.

La nostra – invece – è una società arrogante: quante persone credono di sapere già tutto, di non aver bisogno di nessuno, e non fanno altro che giudicare (specialmente negli argomenti di fede); e – soprattutto – non sanno mai mettersi in discussione!

Ci crediamo onnipotenti! E sì che Abbiamo sperimentato molte volte (soprattutto in questa pandemia) la verità delle parole che più volte Papa Francesco ci ha ripetuto:

«Nessuno si salva da solo».

Eppure non l’abbiamo ancora capito.

Fuori dal caos

La seconda annotazione dell’evangelista è altrettanto significativa:

Lo prese in disparte, lontano dalla folla…

Gesù porta il sordomuto in un luogo appartato, lontano dal chiasso, dal vociare della folla: solo lì può davvero incontrarlo “a tu per tu”.

È così anche per noi: in mezzo al caos quotidiano è impossibile ascoltare, è impossibile l’incontro (in particolare con Dio).

Quante volte raccomando di arrivare con largo anticipo e cercare il raccoglimento prima della Santa Messa o della preghiera personale… come possiamo pretendere che avvenga l’incontro tra noi e Cristo se abbiamo la mente e il cuore altrove?

La fede è un incontro “cuore a cuore” con Dio, che avviene in modo intimo e del tutto personale (molti degli incontri dell’Antico Testamento sono così: Abramo, Mosè, Elia…).

Ma anche gli incontri più quotidiani con le persone devono avere il loro grado di intimità, altrimenti non sono affatto incontri (pensiamo al chiasso e agli “assembramenti” dei nostri giorni, che vengono erroneamente scambiati come socialità).

Gesti di ri-creazione

I gesti di Gesù per compiere il miracolo di guarigione del sordomuto sono gesti di un’intimità (anche fisica) pazzesca!

Chi non avrebbe “schifo” a mettere in bocca la saliva di un’altra persona? Lo può fare solo una mamma col suo bambino quando prova la pappa, o due sposi tra loro quando si baciano…

Sono gesti che richiamano quelli di Dio all’inizio della Genesi, i gesti della Creazione (occorre presupporre che Dio abbia plasmato Adamo non solo con polvere del suolo, ma anche con la Sua saliva, per amalgamarla… nella cultura ebraica si riteneva che la saliva contenesse il fiato. Di fatto Dio, soffia il Suo stesso respiro nelle narici di Adamo per renderlo una creatura vivente).

I gesti di Gesù sono quindi dei gesti “sacramentali”.

La nostra vita di fede ha continuamente bisogno di gesti, di segni, di concretezza, di Sacramenti, appunto: quanto ci sono mancati gli abbracci, le strette di mano in questi mesi di pandemia?

Il sospiro di Gesù

Altrettanto evocativo è il sospiro di Gesù prima di pronunciare il comando «Effatà!»:

guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!»

Lo sguardo al Cielo e il sospiro raffigurano l’unione trinitaria, tra il Padre Celeste, il Figlio Unigenito e lo Spirito Creatore.

Ancora una volta è il respiro, la vita stessa di Dio che ci è stata comunicata il giorno del nostro Battesimo, e che si rinnova ogni volta che nei Sacramenti (in particolare nella Confessione) veniamo nuovamente ad attingere a questa Fonte di Grazia.

Gesù è il “perfezionatore” della creazione

Alla vista di questa guarigione prodigiosa la folla reagisce con meraviglia:

pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!»

Sì, questo Gesù «fa bene ogni cosa», come Dio nei giorni della creazione:

Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno (Gen 1,31).

Nei suoi gesti di guarigione, Gesù sembra portare a compimento qualcosa di incompiuto, di imperfetto: aprire gli orecchi, sciogliere il nodo della lingua…

Non che Dio Padre Creatore abbia lasciato “a metà” la Sua opera, ma spesso, nel mondo esistono sperequazioni e ingiustizie che sono frutto della cattiveria e del peccato degli uomini: queste “imperfezioni” è venuto a sanare Gesù.

Questo Rabbì è davvero il Messia, il realizzatore delle promesse di Dio; non a caso la prima lettura di oggi è tratta da Isaia, che (700 anni prima della venuta di Gesù) prometteva che Dio sarebbe intervenuto per ripristinare la giustizia e i diritti dei poveri:

si schiuderanno gli orecchi dei sordi…
griderà di gioia la lingua del muto

Dio si fa incontrare dove non Te lo aspetti

Eppure solo i pagani lo riconoscono, mentre i suoi lo avevano rifiutato, increduli. Perché?

Perché era apparso nel posto sbagliato: nella Decàpoli, territorio pagano, dimenticato da Dio secondo i Giudei.

Non doveva essere Gerusalemme il centro della fede, l’ombelico del mondo?

E invece Gesù aveva iniziato proprio da Tiro, Sidone, Zabulon, Nèftali… E poi non faceva altro che compiere gesti irriverenti per la mentalità farisaica, sporcandosi continuamente le mani, rendendosi impuro toccando persone impure!

Ancora una volta siamo invitati ad uscire dai nostri preconcetti e dalle nostre convinzioni: Dio si fa incontrare “fuori”, sulle strade, non nelle nostre sacrestie ammuffite!

Ecco perché dobbiamo tornare ad essere «una Chiesa in uscita», come ci dice sempre Papa Francesco.

Aprire, ma anche chiudere

Eccoci qui – allora – anche noi in disparte con Gesù a scoprire che abbiamo bisogno di aprirci, di sturare le orecchie del nostro cuore perché possano accogliere la Sua Parola (che spesso e volentieri passa attraverso la parola e le richieste degli altri… e sono queste che facciamo più fatica ad accettare e ad interpretare come la voce e la Parola di Dio).

Ma forse scopriamo anche che, se da una parte il Signore vuole aprire, dall’altra desidera che impariamo anche a “chiudere”.

Domenica scorsa Gesù ci invitava a guardare con sincerità dentro il nostro cuore per scoprire quante impurità e cattiverie vi si trovano… Avevamo detto, allora, che esse entrano agevolmente quando non siamo capaci di porre un filtro ai nostri occhi e alle nostre orecchie.

Già: quante cose cattive ascoltiamo, su di noi (che ci fanno montare su tutte le furie), sugli altri (che ci rendono superbi e altezzosi), sul mondo (che ci rendono pessimisti), su Dio (che ci tolgono la speranza e la fede)…

Occorre che chiediamo al Signore di aprirci l’orecchio del cuore per ascoltare solo la sua Parola, ma che ci insegni a chiudere ermeticamente le orecchie al male e alla cattiveria che ci turbano il cuore.

Allora potremo entrare in relazione con tutti, buoni e cattivi, e saremo capaci di discernere cosa ascoltare e cosa no, e di parlare correttamente solo per lodare Dio e addolcire il cuore dei fratelli.