Benedire è un comandamento. Maria Santissima Madre di Dio
Benedire, «dire parole buone», non è solo un consiglio, ma un comando. Da oggi impariamo a benedirci gli uni gli altri, invece di maledire sempre tutto e tutti.
Omelia per domenica 1° gennaio 2023
Letture: Nm 6,22-27; Sal 66 (67); Gal 4,4-7; Lc 2,16-21
Quante volte in confessione mi sento dire: «ho parlato male degli altri, ho giudicato»… E molte altre: «ho risposto male a mio marito, ho alzato la voce»…
Dire (o pensare) male degli altri è uno dei nostri “sport” preferiti, e “sputare veleno” uno dei peggiori difetti e peccati più frequenti.
Anno nuovo, vita nuova?
Quante volte ci siamo ripromessi di cambiare, di morderci la lingua, di farci gli affari nostri, di essere più pazienti?
Mettiamo anche questo tra i propositi per l’inizio di un nuovo anno?
Se a Natale non siamo riusciti ad essere «tutti più buoni», proviamo a partire col piede giusto per il 2023?
Un vero comandamento
Imparare a non essere pettegoli, a non pensar sempre male degli altri, a non esprimere giudizi lapidari su tutto e su tutti, non è solo questione di educazione, ma un vero e proprio comandamento, come sentiamo nella prima lettura:
Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:
Ti benedica il Signore
e ti custodisca…”»
Ogni primo giorno dell’anno ascoltiamo queste parole che ci rincuorano (perché descrivono la volontà di Dio di guardarci con Amore infinito)… ma non ci soffermiamo abbastanza su quei verbi: «Parla… benedirete… direte».
Sono comandi, non consigli o “istruzioni liturgiche”: benedire non è una raccomandazione, ma un comandamento, una legge.
Il significato della benedizione
Quando pensiamo alla “benedizione” ci viene subito in mente il prete che traccia un segno di croce con la mano o con l’aspersorio intriso nell’acqua benedetta… ma “benedizione” viene da “bene-dire”: è anzitutto l’atto del “dire bene”, del parlare di qualcuno dicendo qualcosa di buono.
Quanto è difficile questa cosa, e non solo quando si tratta di parlare degli altri, ma anche di noi stessi: ricordo la fatica dei ragazzi che si preparavano alla Cresima quando gli chiedevo di elencarmi le loro cinque qualità più belle… qualcuno non riusciva nemmeno ad iniziare, e quasi tutti si fermavano a due o tre!
L’occhio è la lucerna del corpo
Siamo abituati a vedere e sottolineare solo i difetti, i lati negativi, di tutti e di tutto: andiamo in giro come se avessimo dei pesanti occhiali da sole che offuscano il nostro sguardo.
Siamo maliziosi, ovvero: l’esatto contrario dei «puri di cuore» dichiarati «beati» da Gesù (cfr Mt 5,8).
I puri di cuore non riescono a vedere il male in nessuno, nemmeno in quelli che sono comunemente indicati come “cattivi”: loro «vedranno Dio» perché lo intravedono già ora presente in tutto il Creato e in tutte le creature.
Il parlare bene o male – benedire o maledire – è un’azione che parte dallo sguardo; per questo Gesù ci avverte:
«La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso» (Mt 6,22).
Un occhio semplice, che non giudica, che non fa dietrologie, che non cerca il pelo nell’uovo, che non “cataloga” le persone, è il requisito fondamentale per essere persone capaci di benedire.
Come si fa a benedire i nemici?
Se è già difficile educare lo sguardo a trovare il bene (o anche solo un po’ di bene) in tutto e in tutti, quanto ci risulta impossibile (e incomprensibile) se dobbiamo farlo verso chi ci ha fatto del male!
Spesso – in confessione – qualcuno mi dice «ma se qualcuno mi ha fatto del male, non sono tenuto a guardarlo con benevolenza, no? Posso ignorarlo: ne ho tutto il diritto!»
E invece no, perché Gesù è chiaro su questo punto:
«benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male» (Lc 6,28);
e anche l’apostolo Paolo:
Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite (Rm 12,14).
Come si fa? Dove la si trova la forza? Sembra impossibile!
La risposta è più semplice di quanto possiamo immaginare: basta chiedere a Dio che sia Lui a benedire le persone che non riusciamo a guardare con benevolenza.
Signore, pensaci Tu!
C’è una bella giaculatoria di san Filippo Neri che ripeto spesso e dice:
«Signore, mi fanno violenza: rispondi Tu per me!»
Quale sarebbe la nostra risposta “naturale” di fronte a una violenza subita? La vendetta, o – come minino – l’odio e il rancore…
Invece Dio come guarda la persona che mi ha fatto del male? Nell’unico modo in cui la può guardare: come Suo figlio!
Nessun padre potrebbe mai guardare in cagnesco il proprio figlio, volere la sua morte o anche solo il suo male (cfr Lc 11,11-13), nemmeno nel caso si fosse macchiato di una grande colpa; tantomeno il Padre Celeste, perché «Egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (cfr Ez 33,11).
Benedire è affidare a Dio
Quante volte noi – anche solo “scherzosamente” – quando non sopportiamo qualcuno lo mandiamo «a quel paese», o – peggio – «al diavolo»?
Impariamo invece a dirgli «addio», non come l’augurio o la constatazione di una separazione definitiva e irrecuperabile, ma nel vero senso della parola: «ti affido a Dio, ti metto nelle Sue mani».
In fin dei conti, è ciò che chiede di fare il testo del Libro dei Numeri che abbiamo ascoltato: per benedire il popolo, Aronne e gli altri sacerdoti non dovranno usare parole loro, ma augurare a tutti la benedizione di Dio, la Sua custodia, il Suo sorriso, la Sua grazia, il Suo sguardo benevolo, la Sua pace.
È quello che hanno fatto anche i pastori del vangelo di oggi: non hanno raccontato cose loro, ma «riferirono ciò che del bambino era stato detto loro».
Un nuovo modo di parlare
Ecco perché invito spesso i miei parrocchiani a cambiare il proprio modo di parlare: non solo nel disimparare il vizio del pettegolezzo e della maldicenza, ma proprio nell’educarsi a dire parole nuove.
Proviamo a sostituire i nostri modi di dire vuoti (tipo «ci vediamo», «ci sentiamo») con veri e propri doni che vengono dal cuore e dalla fede: «che Dio ti benedica!»
E facciamolo da oggi, al posto del semplice «buon anno!»