Capre o pecore? Solennità di Cristo Re (A)

Capre o pecore?

Vogliamo continuare a vivere da capre, selvatici e indipendenti, oppure diventare pecore docili e miti, che si lasciano guidare dal Signore incontro ai poveri?

Letture: Ez 34,11-12.15-17; Sal 22 (23); 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46

Con il brano evangelico di oggi – ultima domenica dell’anno liturgico (ciclo A) – terminiamo l’ascolto dell’evangelista Matteo. E terminando il quinto grande discorso (quello escatologico, dei capitoli 24 e 25) chiudiamo anche una sorta di cerchio che era stato aperto col primo discorso, quello della Montagna (capitoli 5-7).

Nelle Beatitudini – infatti – i poveri, i miseri, gli affamati, erano dichiarati «beati» perché «padroni del Regno dei cieli» (cfr Mt 5,3 e 5,10); qui sono presentati come gli uscieri, i “lasciapassare” del Regno stesso: solo chi avrà riconosciuto in loro la presenza di Cristo stesso potrà entrare.

Universale perché riguarda tutti

Quella che noi intitoliamo “il Giudizio Universale” non è un’immagine a se stante, ma la terza parabola che chiude il discorso sulla venuta finale del Figlio dell’Uomo. Le tre similitudini si completano:

  • La prima parabola – quella delle dieci ragazze che attendono lo Sposo – potrebbe alludere all’invito rivolto agli Ebrei (l’antico popolo dell’Alleanza) di rimanere vigilanti, in attesa del Messia futuro.
  • La seconda – quella dei servi a cui sono affidati i talenti del padrone – potrebbe essere un richiamo ai cristiani (il popolo della nuova Alleanza), coloro che nella Chiesa hanno ricevuto un impegno, un ruolo.
  • Questa terza e ultima parabola richiama tutti gli uomini e le donne, di tutti i luoghi e di tutti i tempi, anche e specialmente quelli che non hanno mai incontrato o conosciuto Cristo, ma hanno comunque incontrato l’umanità sofferente, e hanno preso una chiara decisione di fronte ad essa: di servizio oppure di indifferenza e rifiuto.

Ecco perché è universale: ci sono dentro tutti, nessuno escluso.

È giunto il momento di separare

Il quadro si apre in modo glorioso e solenne: il Figlio dell’uomo è rappresentato come un re che siede sul trono, in procinto di emettere un giudizio. Ma subito si sovrappone anche la figura del pastore, che passa in rassegna il suo gregge (immagine presente anche nella prima lettura) e separa le pecore dalle capre.

Già nelle parabole del regno era apparsa l’immagine della “separazione”:

  • la parabola della zizzania e del buon grano (Mt 13,24-30);
  • la parabola della rete che raccoglie ogni genere di pesci (Mt 13,47-50).

Ora è finalmente arrivato il momento per quella distinzione tanto agognata tra bene e male, che sembrava procrastinata fino a suscitare l’impazienza umana.

Ma la sorpresa la fa da padrona, da una parte e dall’altra: sia i giusti che i maledetti chiedono conto della loro sorte, perché non ne capiscono il motivo.

Il criterio inaspettato

Il motivo della sorpresa di entrambi gli schieramenti è il centro di tutto il Vangelo:

«tutto quello che (non) avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, (non) l’avete fatto a me».

L’umanità sofferente è il “luogo” della presenza di Gesù: i piccoli delle Beatitudini (perseguitati, affamati e assetati di giustizia) sono un “Sacramento”, perché in essi si rende presente Cristo!

Il motivo della benedizione o della maledizione non è l’aver rispettato delle leggi, o l’aver predicato il Vangelo:

«Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!”» (Mt 7,21-23).

Proprio quello che avviene nella pagina di oggi! La benedizione del Padre sarà conseguenza dell’aver amato in modo incondizionato, senza aspettarsi nulla in cambio, cominciando ad amare proprio quelli che non sembrano degni di amore:

«amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano… Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt 5,44.46-47).

E questo non per autolesionismo o per filantropia cieca, ma perché così è Dio:

«affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).

E perché così ha fatto Gesù stesso:

Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm 5,8).

Egli per primo si è fatto servo:

«il Figlio dell’uomo… non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28).

È una pagina “scomoda” questa, perché ci sbatte in faccia tutta la nostra incoerenza: il Vangelo è questo, non un altro. San Giovanni della Croce (e una schiera di Santi dopo di lui) ripeteva:

«Alla fine della vita saremo giudicati sull’Amore».

E Santa Teresa di Calcutta diceva:

«Difficilmente Dio giudica e condanna, ma se un giorno dovesse farlo, ci giudicherà sulla carità, sulla nostra capacità di riconoscerlo presente nei nostri fratelli più piccoli».

I piccoli della porta accanto, o in casa nostra

E non pensiamo sempre che per mettere in pratica questa pagina occorra andare in Africa o chissà dove: Cristo ci interpella in ufficio con quel collega maltrattato da tutti, a scuola con quel compagno più solo, in casa col marito o la moglie che non sopporto più…

Sono miriadi le occasioni quotidiane di incontro col Cristo povero e sofferente, basta che non chiudiamo gli occhi. Spesso, da sacerdote, penso che un giorno Dio mi dirà:

– «Ero io quel mendicante che ti chiedeva un po’ di soldi per mangiare, e tu non mi hai dato nulla perché eri convinto che mi sarei drogato o ubriacato;


– ero io quel contadino boliviano che ti chiedeva di essere ospitato in Parrocchia per una notte con la famiglia, e tu mi hai detto che non avevi posto, solo perché non volevi che lasciassi sporco in giro;


– ero io quello zingaro che ti chiedeva vestiti vecchi per coprirsi, e tu mi hai detto che dovevo andare al Centro d’Ascolto della Caritas;


– ero io quello straniero che ti vendeva fazzoletti alla Stazione, e tu – nella tua impeccabile tenuta sacerdotale – non li hai voluti comprare perché ne avevi già troppi nei cassetti;


– ero io quell’ammalato in ospedale che non sei venuto a visitare perché “prima dovevano avvisarti i parenti”;


– ero io in carcere, magari anche per giusti motivi, e tu hai detto che avrei dovuto pensarci prima di delinquere».

Ancora una volta: che immagine di Dio abbiamo?

Quella del giudizio finale è una pagina che genera in noi una sensazione cupa, di paura, perché ci richiama il giudice implacabile rappresentato da Michelangelo nel dipinto dietro l’altare della Cappella Sistina.

Ma – ancora una volta – è colpa nostra, non di Gesù, e nemmeno di Matteo: si tratta sempre della stessa domanda che ci siamo fatti ascoltando le tante parabole del Regno: che immagine abbiamo di Dio? Di un tremendo “castigamatti” o di un Padre amorevole?

Se la leggiamo bene, scorgiamo ancora una volta la profonda misericordia di Dio, proprio nell’accenno al pastore che separa le pecore dalle capre: i pastori della Palestina, sul fare della sera, separavano le pecore dalle capre perché queste ultime – senza il “cappotto” naturale della pelliccia – pativano il freddo proveniente dal deserto ed andavano ricoverate in un posto più caldo, come una stalla o sotto una roccia.

Questo accenno che fa da sfondo al racconto di Gesù, suggerisce che la separazione – per quanto diventi ormai un giudizio – è ancora una volta un gesto di protezione, di attenzione verso i soggetti più deboli. Quasi a dirci che – anche nel momento ultimo e tremendo del Giudizio finale – Dio avrà compassione e misericordia!

Senz’altro soffrirà, nel doversi separare per sempre da quelli che rimangono Suoi figli!

Capre o pecore?

Gli esegeti concordano quasi tutti nell’affermare che la similitudine iniziale del pastore che separa le pecore dalle capre non abbia alcun intento moralistico (attribuendo un particolare valore negativo alle capre rispetto alle pecore), ma sia solo un richiamo figurativo alla necessità di una separazione netta e certosina.

Ma io colgo lo stesso la suggestione, perché – nel mio immaginario – i due tipi di animali mi suggeriscono due diversi atteggiamenti.

Mentre la pecora ha bisogno di essere condotta a verdi pascoli ed è un animale piuttosto docile e mite, la capra è una bestia selvatica, indipendente, propensa a stare nei luoghi più aspri e impervi, e a procacciarsi nutrimento ricorrendo a qualsiasi espediente (credo sia capitato anche a voi di vedere capre che non solo si nutrono di spine pungentissime, ma anche grattano e divorano la corteccia degli alberi).

Ebbene, questi due diversi tipi di comportamento animale mi hanno fatto riflettere sulla condizione necessaria per incamminarsi decisamente verso il regno dei cieli: per imparare a riconoscere Cristo nei poveri e nei piccoli, occorre anzitutto che ci facciamo noi stessi poveri e piccoli, miti e docili (che sono poi le categorie oggetto di felicitazione nella pagina delle Beatitudini).

Siamo chiamati a diventare pecore fin da ora, a lasciarci guidare docilmente da Cristo, nostro Pastore, anche dove non vorremmo andare, perché così ha fatto Lui stesso:

«Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca»
(Is 53,7).

È solo «mettendoci nei panni» dei piccoli, degli ultimi, dei poveri e derelitti che possiamo capirne la condizione e solidarizzare veramente con loro, non con un atteggiamento di «carità pelosa» o un falso pietismo.

Siamo chiamati a replicare lo stesso movimento di “discesa” fatto da Gesù per incarnarsi: Egli, pur essendo Dio onnipotente, si è fatto nostro servo (cfr Fil 2,5-11).

Tutto in tutti

Termino ricordando la bellissima immagine ascoltata da Paolo nella seconda lettura:

Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza… E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

Il Regno di Dio si compirà quando l’Amore sarà l’unica legge della vita, quando Dio – che è Amore (cfr 1Gv 4,8.16) – sarà tutto in tutti.

Lasciamoci vincere dall’Amore!