Carne e Sangue. Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (A)

Il pellicano nutre i piccoli col suo sangue

Sentir parlare di carne e sangue lascia interdetti anche noi, come la gente del tempo di Gesù, ma andando in profondità scopriamo la fonte della nostra vita.

Letture: Dt 8,2-3.14-16; Sal 147 (148); 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58

Già da sole “carne” e “sangue” sono parole che fanno impressione. Se poi ci si riferisce alla carne e al sangue di un uomo e si invita insistentemente a mangiarne e berne, la sferzata arriva in tutta la sua crudezza.

Rimaniamo interdetti anche noi, come la gente del tempo di Gesù.

Andare in profondità

Nel vangelo di Giovanni, Gesù usa sempre un linguaggio molto forte ed allusivo, che non è subito “afferrabile”.

Non è che il Signore non volesse farsi capire dai suoi interlocutori: solo li invitava a non fermarsi alla superficie, ma a scendere in profondità, le profondità dello Spirito.

Come nell’incontro notturno con Nicodemo:

«...rispose Gesù: “In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio”.
Gli disse Nicodèmo: “Come può nascere un uomo quando è vecchio?”»
(Gv 3,3-4).

La Parola si fa carne

Quando Gesù dice «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo… e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» sta cercando di portare i suoi ascoltatori a rileggere in profondità il bellissimo brano di Deuteronomio che ci è proposto come prima lettura di questa solennità:

«(Dio) ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore».

Cos’è che «esce dalla bocca del Signore»? Anzitutto la Sua Parola, il suo “Verbo”.

È il caso ricordarci che stiamo leggendo il vangelo secondo Giovanni, che inizia proprio così:

«In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio...
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,1.14a)

Gesù è il Verbo, la Parola uscita dalla bocca di Dio che si è fatta carne.

“Farsi carne” non significa semplicemente prendere un corpo, ma (nella cultura ebraica) assumere tutto ciò che riguarda l’uomo: le sue fatiche, le sue debolezze… ma anche la concretezza e la possibilità di un incontro.

È perché siamo carne che possiamo guardarci, abbracciarci (quanto ci mancano gli abbracci in questo periodo!)… anche prenderci a pugni, se è necessario!

Una Parola che nutre

Noi cristiani sappiamo (spero) che la celebrazione eucaristica è costituita da due “mense”: la mensa della Parola e quella del Pane.

Ad entrambe queste “mense” Cristo ci sfama, come fece coi discepoli di Emmaus: prima ci nutre (e fa ardere il cuore) con la Parola che è Lui stesso, poi – nel pane – si spezza sotto i nostri occhi e si fa nostro cibo.

Non è superfluo ricordare come Gesù fosse così “bravo” nel parlare da “nutrire” la gente con le sue parole, tanto da far loro dimenticare persino il bisogno di riempire la pancia (cfr Mt 15,32)…

Non succede anche a noi – a volte – di dimenticare i bisogni primari (come quello del mangiare) quando siamo così “presi” da qualcosa o da qualcuno che hanno catturato la nostra attenzione e il nostro cuore?

Farsi cibo è l’atto di amore più grande

Ma c’è un altro significato molto evocativo del «quanto esce dalla bocca del Signore»: non si dice che un papà e una mamma – piuttosto che far mancare qualcosa ai loro bambini – «si tolgono il pane di bocca»?

Proprio così: mi piace immaginare che Dio, per non farci patire la fame si sia letteralmente «tolto il pane di bocca».

E non si è accontentato di darci qualcosa di esterno a Sé, ma ci ha fatto dono di Se stesso: nel suo Figlio Gesù, si è fatto addirittura nostro cibo.

il pellicano nutre i piccoli col suo sangue

A tal proposito, c’è un’immagine particolare e molto bella che è usata da secoli per rappresentare il Sacrificio Eucaristico: quella del pellicano: si riteneva che questo uccello, quando non aveva più nulla da dare ai suoi piccoli, si aprisse con il becco una ferita nel costato e li nutrisse col suo stesso sangue.

Dare la vita

Come dicevo all’inizio, il sangue è un simbolo vivido e forte; lo è anche nella Scrittura.

Nella cultura ebraica il sangue è il simbolo della vita stessa, donata da Dio (tanto che non si può cucinare un animale senza prima averne restituito il sangue alla terra).

Dal giorno in cui Dio disse a Caino «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gen 4,10), il sangue è simbolo di tutta la sofferenza del mondo a causa delle ingiustizie che lo affliggono.

donare sangue

Ma è anche il simbolo della vita che può essere donata generosamente (pensiamo ai donatori di sangue o di organi, oltre che – ovviamente – ai martiri).

Versare il proprio sangue è un segno chiaro e vivido del patire e del morire, dell’offrirsi in sacrificio.

Al di là dei simboli

Il pane deposto sull’altare è simbolo del lavoro faticoso dell’uomo. In questo vediamo abbastanza chiaramente il riferimento alla carne, al corpo straziato di Gesù nel sacrificio della Croce.

Il vino, invece – oggi come allora – non è simbolo di gioia e di festa?

Lo è senz’altro sulla tavola di un banchetto festoso… non di certo su quella di un uomo triste e abbandonato che beve per affogare le sue angosce.

È bevanda amara se si è costretti a brindare contro la propria volontà, per soddisfare l’arroganza del potente di turno che si sta auto-celebrando.

È simbolo di tutta l’amarezza per le ingiustizie subite se ti viene offerto (ormai come rancido aceto), con una sudicia spugna in cima ad una canna (cfr Mt 27,48).

La comunione che si realizza nel mangiare Cristo

Invitandoci a mangiare la sua carne e a bere il suo sangue, Gesù non solo allude al dono totale di sé sulla croce, ma ci assicura che – accogliendo questi doni – avremo in noi la sua vita, la vita eterna, e diventeremo una cosa sola con Lui:

«colui che mangia me vivrà per me».

Si realizza in noi quel che avviene naturalmente quando ci si nutre: il cibo che assumiamo diventa parte di noi.

Così, nutrendoci del corpo di Cristo e bevendo il suo sangue, Egli stesso diventa parte di noi, e noi diventiamo parte di Lui.

Potremo così cantare – rubando le parole ad Adamo – :

«Questa volta
è osso dalle mie ossa,
carne dalla mia carne»
(cfr Gen 2,23).


Ci sarebbero mille altre cose da dire per continuare a celebrare questa festa solenne, ma mi fermo qui per questa volta.

Però, dopo tutto quello che abbiamo detto sul sangue di Cristo, non posso non congedarmi con la stupenda penultima strofa dell’inno eucaristico di San Tommaso d’Aquino, l’Adoro Te devote:


Pie Pellicane, Jesu Domine
me immundum munda tuo sanguine,
cujus una stilla salvum facere
totum mumdum quit ab omni scelere.
O Pio Pellicano, Gesù Signore,
col tuo sangue purifica me che son peccatore,
una sola goccia di esso può salvare
tutto il mondo da ogni colpa.