Dio (non) fa preferenze. 30ª Domenica del Tempo Ordinario (C)

Dio (non) fa preferenze

Il Signore fa preferenze, eccome! Ma al contrario di come le fa l’uomo: se c’è da scegliere in modo parziale, Dio sta dalla parte dei poveri e degli ultimi.

Omelia per domenica 23 ottobre 2022

Letture: Sir 35,15-17.20-22; Sal 33 (34); 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

La Sacra Scrittura è piena zeppa di affermazioni sull’imparzialità e la giustizia di Dio:

«Dio è giusto giudice» (cfr 2Mac 12,6; Ger 11,20; Sal 7,12; Sal 9,5; 2Tim 4,8).


«Dio non fa preferenze» (cfr 2Cr 19,7; Sir 35,15; At 10,34; Rm 2,11; Ef 6,9; 1Pt 1,17).

Non fare preferenze personali è la condizione essenziale per esercitare la giustizia: è del tutto evidente.

Eppure qualcosa non torna

Allora come si spiega che una delle accuse più frequenti a Dio – anche nella Bibbia – sia proprio quella della parzialità?

Ce l’abbiamo spesso col Signore perché sembra mandare tutte le croci e le disgrazie alla “brava gente” e lasciare in pace i cattivi.

Siamo blasfemi? Può darsi, ma siamo in “buona compagnia”. Date una lettura al capitolo 21 del Libro di Giobbe, e vedrete che è così:

«Perché i malvagi continuano a vivere,
e invecchiando diventano più forti e più ricchi?
La loro prole prospera insieme con loro,
i loro rampolli crescono sotto i loro occhi.
Le loro case sono tranquille e senza timori;
il bastone di Dio non pesa su di loro».

Oppure alcuni passaggi del Salmo 73:

ho invidiato i prepotenti,
vedendo il successo dei malvagi.

Fino alla morte infatti non hanno sofferenze
e ben pasciuto è il loro ventre.

Non si trovano mai nell’affanno dei mortali
e non sono colpiti come gli altri uomini…

Ecco, così sono i malvagi:
sempre al sicuro, ammassano ricchezze
(cfr Sal 73,2-10.12)

Vorremmo insegnare a Dio

Insomma: Dio è giudice giusto ma non come vorremmo noi. Noi vorremmo che Lui esercitasse la giustizia “a modo nostro”, e – soprattutto – subito, adesso.

Non ci sta bene il fatto di dover aspettare il giudizio universale (che spesso invochiamo), e ogni volta che non riusciamo a farci giustizia da soli, invochiamo un “dio castigamatti”.

Ma – matematicamente – rimaniamo frustrati e delusi, e allora iniziamo con la solita tiritera di lamentele molto simili a quelle bibliche citate sopra: «Dio dovrebbe fare così… Dio dovrebbe impedire di là… Signore, perché permetti questo?», eccetera.

La certezza della pena e la velocità della sua esecuzione sono indici del funzionamento della giustizia.

Ma – nonostante nemmeno nel nostro ordinamento giudiziario le cose vadano un granché bene (soprattutto in Italia) – sotto sotto, accusiamo il Signore di non essere capace di fare il “suo mestiere”.

Siccome Dio non mette a posto le cose come vorremmo noi (anzi), lo accusiamo di parzialità.

Dio è parziale?

Ebbene, sì: Dio è parziale e fa preferenze.

A discapito di tutti i brani biblici che vi ho citato all’inizio, i testi della Liturgia della Parola di oggi mostrano che è così.

Il brano del Siracide che ascoltiamo come prima lettura – infatti – afferma:

Il Signore è giudice
e per lui non c’è preferenza di persone.

Non è parziale a danno del povero

Dio è imparziale, ma… «a senso unico»: solo con il povero.

Sostanzialmente, l’autore afferma che – di per sé – Dio non fa preferenze, ma – se proprio deve farle – sceglie di fare il contrario di quanto fa l’uomo normalmente: mentre i giudici umani iniqui si lasciano corrompere (per denaro o altri favori) dai ricchi e dai potenti, Dio si lascia “corrompere” dai poveri.

La “bustarella” per “corrompere” Dio

Ma con cosa si può “corrompere” Dio? Egli non ha certo bisogno di denaro o favori…

Dio si lascia “corrompere” dalla preghiera sincera, che solo i poveri sanno elevare a Lui. La loro preghiera è una “tangente” così convincente che Dio non riesce a resistere:

La preghiera del povero attraversa le nubi
né si quieta finché non sia arrivata;
non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto
e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.

È proprio come l’insistenza della vedova col giudice disonesto di cui abbiamo ascoltato la vicenda nella parabola di domenica scorsa.

È una preghiera insistente, ma non solo: è elevata a Dio da chi sa che non può avere altro sostegno che Lui.

La differenza

Dio ascolta certe preghiere e fa “orecchio da mercante” con altre: lo dice chiaramente Gesù al termine della parabola del fariseo e del pubblicano, che ascoltiamo oggi:

«Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato…»

Cos’è che motiva quell’inciso «a differenza dell’altro»? Qual è la differenza tra le due preghiere?

Non è tanto la forma, ma il cuore dell’uomo che la eleva a Dio.

Come spiegavo tre anni fa, la preghiera del fariseo è il monologo di un superbo che si mette su un piedistallo e tesse le proprie lodi, vantandosi davanti a Dio, mentre quella del pubblicano è una supplica rivolta al Signore con grande umiltà.

Apparenza o sostanza?

Di per sé, la preghiera del fariseo è la più “degna”, essendo un’orazione di ringraziamento e di lode.

E anche il personaggio che la pronuncia – formalmente – è il più “santo” tra i due: i farisei erano davvero persone ineccepibili, quanto all’osservanza della Legge.

Invece la categoria sociale del secondo è quella dei “mafiosi legalizzati”: gente che campava sullo strozzinaggio e sulla disonestà, e la sua è una preghiera di minor “caratura”, essendo una domanda interessata per ottenere un favore.

Ma ciò che conta davanti a Dio non sono la forma e l’apparenza

«…perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1Sam 16,7).

Giustizia rovesciata?

È famoso (e spesso citato a sproposito) il monito di Gesù «i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31).

Quella di Dio sembra una giustizia al contrario, dove i santi sono messi per ultimi a discapito dei peccatori. L’abbiamo sentito nelle tre parabole della misericordia del capitolo 15 di Luca ascoltato più volte quest’anno:

«vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7).

Non c’è niente da fare: Dio fa preferenze, eccome! E noi andiamo su tutte le furie per questa cosa, come il figlio maggiore della parabola del figliol prodigo (cfr Lc 15,29-30).

Ma attenti bene: Dio non preferisce i peccatori in quanto tali, ma quando essi sono disposti a convertirsi e si rivolgono a Lui con umiltà, come il pubblicano della parabola, e come i pubblicani e le prostitute di cui sopra:

«Giovanni venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli» (Mt 21,32).

La condizione necessaria per pregare

Quell’«invece» è il discrimen, proprio come l’«a differenza dell’altro».

Cosa ci vuole insegnare oggi Gesù sulla preghiera (dopo averci insegnato la resilienza con la parabola di domenica scorsa)?

Che la condizione necessaria per rivolgerci a Dio è l’umiltà del cuore.

Come argomentavo in un’omelia di più di due anni fa, la chiave che apre la porta del cuore di Dio è l’umiltà.

Ce lo insegnano i Santi: la nostra preghiera (anche quando è di lode e ringraziamento) è sempre fatta da dei poveracci, come scrisse San Giovanni Maria Vianney (meglio conosciuto come il Santo Curato d’Ars):

«L’homme est un pauvre qui a besoin de tout demander à Dieu»
(«L’uomo è un povero che ha bisogno di chiedere tutto a Dio»)

Se vogliamo che la nostra preghiera «attraversi le nubi» e arrivi fino al Cielo, non abbiamo altra via che quella indicataci da Gesù: l’umiltà, l’umiliazione,

«perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Ora sappiamo qual è la “bustarella” che dobbiamo passare a Dio “sottobanco” prima di iniziare a pregare, perché l’umiltà è l’unica cosa che Lo rende parziale e Lo obbliga a fare preferenze.