Felice colpa?! Veglia Pasquale (C)

felice colpa!

Letture: brani a scelta tra le 7 letture proposte (almeno tre dall’A.T.; obbligatoria Es 14,15- 15,1)

Nel preconio pasquale (l’Exultet) che il sacerdote o il diacono cantano appena il Cero Pasquale è stato posto sull’altare al termine del rito del “Lucernario” della solenne Veglia Pasquale c’è una strana espressione di Sant’Agostino:

«Senza il peccato di Adamo, Cristo non ci avrebbe redenti: felice colpa, che meritò un così grande Redentore!»

Come si può definire felix culpa il peccato di Adamo?! Non scherziamo! Da esso sono scaturite tutte le disgrazie dell’umanità!

Nemmeno noi andiamo fieri dei nostri peccati! Almeno, così mi è parso di constatare anche nelle interminabili ore di confessionale di questi giorni…

Perché “felice colpa”?

Che storia è quella di gioire per uno sbaglio, anche se poi ne è derivato qualcosa di positivo?

Fosse per noi – se avessimo una macchina del tempo – torneremmo indietro a cancellare tutti i nostri errori, o no?

Eppure la Pasqua ha qualcosa da insegnarci a riguardo: Dio non è venuto a cancellare i nostri peccati, ma a perdonarli, ed è qualcosa di diverso. E di grandioso.

Dom Bruno Webb, benedettino inglese, riassume così ciò che Dio nella sua inimmaginabile misericordia ha fatto per noi:

Invece di riportare l’uomo a ciò che era stato, Dio si è chinato dalla sua eternità, prendendolo tra le sue braccia e stringendo al Suo cuore in un abbraccio così stretto che l’abisso tra Creatore e creatura è stato colmato, al punto che Dio e l’uomo d’ora in poi formano nell’ordine della grazia un solo essere, “tutto il Cristo”.

(B.WebbPerché Dio permette il male?)

Attraverso la redenzione di Gesù Cristo siamo stati riportati allo stato soprannaturale in un modo che supera di gran lunga in gloria ciò che avremmo potuto essere se non ci fosse stata la caduta dei nostri progenitori.

È nel buio che brilla la luce

È dunque stato necessario il peccato originale? E sono necessari i nostri peccati? Sembrerebbe di sì…

È il senso del primo grande rito che abbiamo compiuto in questa Veglia Pasquale: è perché tutte le luci della chiesa erano spente, che il bagliore del Cero Pasquale ha potuto davvero illuminare la nostra notte.

È perché siamo passati attraverso i cinquanta giorni della Quaresima – e soprattutto questo Venerdì e Sabato Santo di silenzio e attesa – che stanotte possiamo gustare la gioia Pasqua.

Abbiamo bisogno di passare attraverso il buio più fitto – quello della nostra miseria – per apprezzare la luce, la Luce della Pasqua.

Così – anche se (e proprio perché) tutto attorno a noi continua a risuonare sgradevole e insensato (la guerra, la pandemia, cattiverie di ogni tipo…) – possiamo prendere coscienza che il Signore è venuto a redimerci dal male.

Bisogna toccare il fondo

Tra le tantissime pagine della Sacra Scrittura che la Liturgia della Parola della Veglia Pasquale propone al nostro ascolto, una è assolutamente obbligatoria: quella del capitolo 14° del libro dell’Esodo, che ricorda il passaggio glorioso del popolo d’Israele attraverso le acque del Mar Rosso.

È ovvia l’allusione alla parola Pesach, che in ebraico indica la Pasqua, ma – letteralmente – significa “passaggio”.

Ebbene sì, c’è un passaggio, una traversata che dobbiamo compiere: quella dalla schiavitù alla libertà, dalla morte alla vita… Ma questa traversata non si può fare se non calpestando il fondo del mare.

Il testo che abbiamo ascoltato dice più volte che «gli Israeliti entrarono nel mare sull’asciutto», ma – per chi abbia provato a camminare su una risacca di sabbia lasciata affiorare dalla bassa marea – credo sia facile immaginare che quella ricavata in mezzo al Mar Rosso non fosse certo un’autostrada asfaltata…

Quando portavo i bambini delle elementari a Cesenatico, sul Mar Adriatico, e mi alzavo a pregare sulla spiaggia prima dell’alba, sperimentavo ogni giorno cosa significasse la bassa marea, e quale putredine di alghe, cozze, conchiglie e granchi morti coprisse la sabbia…

Mi sono spesso immaginato il fondale del Mar Rosso così: un sottofondo marino in putrefazione.

Così è il nostro cuore quando «il Signore durante tutta la notte risospinge il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto»… affiora ciò che siamo veramente: ed è lì che il cammino penitenziale della Quaresima ci ha portati.

Riconoscere i nostri peccati significa essere disposti a “toccare il fondo”, a camminare in mezzo alla putredine del nostro cuore.

Ma non è quella la nostra meta definitiva: siamo chiamati a giungere all’altra riva.

Passare all’altra riva

La destinazione di questo cammino non è l’asciutto puzzolente del nostro cuore, ma l’altra riva, quella da cui ammirare come le forze della natura (contemplate con meraviglia dalla prima lettura) in mano al Signore che le ha create, sono capaci di fare ordine, di separare per sempre e definitivamente il male dal bene.

Anche noi – come Israele – siamo chiamati a vedere gli Egiziani morti sulla riva del mare; a vedere la mano potente con la quale il Signore aveva agito, a temerlo e credere in Lui.

Gli Egiziani morti sulla riva non sono i nostri nemici (non è Putin, per intenderci, e nemmeno il nostro vicino di casa che ci fa penare e ci tormenta), ma i nostri peccati, i nostri egoismi, le nostre durezze interiori che ci tengono in scacco e in schiavitù.

Siamo affezionati ai nostri peccati?

Se avessimo la pazienza di andare avanti a leggere la storia dell’Esodo, ci renderemmo conto che la battaglia contro gli Egiziani non è mai del tutto vinta… che quegli Egiziani guardati con soddisfazione “morti e stecchiti” sulla riva del Mar Rosso, sono sempre pronti a riaffiorare nel cuore con nostalgia:

gli Israeliti ripresero a piangere e dissero: «Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna» (Nm 11,4-6).

Il rischio di ritornare presto a provare nostalgia delle nostre vecchie abitudini, della nostra “vita comoda”, è sempre dietro l’angolo.

La tragedia di considerare la vita di prima – tutto sommato – una “felice colpa” è qualcosa che sempre ci stuzzica il cuore.

Il rischio concreto che – passata questa Pasqua – ritorniamo alle nostre vecchie abitudini lo conosciamo fin troppo bene, e l’abbiamo sperimentato un sacco di volte. Lo testimonia anche la terza lettura che abbiamo ascoltato stasera, tratta dal profeta Baruc:

Perché, Israele? Perché ti trovi in terra nemica
e sei diventato vecchio in terra straniera?
Perché ti sei contaminato con i morti
e sei nel numero di quelli che scendono negli inferi?
Tu hai abbandonato la fonte della sapienza!
Se tu avessi camminato nella via di Dio,
avresti abitato per sempre nella pace.

Morire al peccato, una volta per sempre

Proprio per questo, l’apostolo Paolo, che abbiamo ascoltato nell’epistola prima del Vangelo, ci raccomanda di considerare cosa ci è successo nel Battesimo (che tra poco rievocheremo nella liturgia di questa notte):

non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte

Lo sappiamo: l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è liberato dal peccato.

Usando sempre le sue parole (ma tratte da un’altra lettera):

Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù (Gal 5,1 nella traduz. CEI 1974).

Basta cercare tra i morti!

Dobbiamo far morire ciò che ci ha fatto morire (il nostro peccato) e – una volta risorti e rinnovati con Cristo – smetterla di andare a “rovistare” tra i morti… è questo il senso della domanda degli angeli alle donne che si erano recate al sepolcro nel Vangelo che abbiamo appena ascoltato:

«Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto».

Non ci sembra vero; ci sembreranno dei vaneggiamenti, come ai discepoli di fronte all’annuncio delle donne… ma se abbiamo l’ardire di provare a chinarci nel “sepolcro” del nostro cuore, ora – come Pietro, pieni di stupore – vedremo soltanto i teli che hanno trattenuto Gesù solo per un po’, ma non l’hanno potuto imprigionare per sempre, perché

Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio.

Davvero felice colpa

E questo è il passaggio che siamo invitati a fare anche noi questa notte:

Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.

Ed è così (e solo così) che anche il nostro peccato può diventare una “felice colpa”: solo perché è ormai stato raccolto dalla misericordia infinita di Dio e trasformato in occasione di salvezza.