Guerra e pace. 2ª Domenica di Pasqua (C)

Guerra e pace

Come si può sperare nella pace con una guerra fuori dalla porta di casa? Eppure il Risorto continua a ripeterci «Pace a voi!», e non è un augurio, ma un compito

Letture: At 5,12-16; Sal 117 (118); Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31

Ogni anno – in questa ricorrenza della seconda domenica di Pasqua – la Liturgia ci fa ascoltare il brano evangelico che narra l’esperienza unica dell’apostolo Tommaso.

Ho già avuto modo di soffermarmi più volte su questo brano: l’anno scorso a partire dalla suggestione del soprannome Dìdimo (“gemello”), e due anni fa sull’importanza del vivere da cristiani dentro una Comunità.

Quest’anno, invece, vorrei soffermarmi sul tema della pace, dono del Risorto ai credenti.

Ma quale pace?

«Pace a voi!» dice il Risorto ai suoi discepoli in questa pagina di vangelo, per ben tre volte.

E a noi viene da rispondere: «ma quale pace, Signore?»

Infatti – giunti ormai a due mesi dall’inizio di una guerra tremenda così vicina a noi – non è facile accogliere il saluto di Gesù, e la pace ci sembra sempre più un miraggio.

Sembra fuori luogo, o quasi impossibile.

Tutti vogliamo la pace (a parole), ma essa sembra allontanarsi sempre più, e – come era successo con la pandemia due anni fa (che pensavamo di archiviare con una settimana di isolamento) – la situazione pare prendere una china sempre più pericolosa.

Qui c’è solo guerra

Anche gli appelli di Papa Francesco cadono tutti nel vuoto, e ricordano tanto le parole del Salmo:

Io sono per la pace,
ma essi, appena parlo,
sono per la guerra
(Sal 120,7);

e anche quelle sconsolate dei Profeti:

Curano alla leggera la ferita del mio popolo,
dicendo: «Pace, pace!», ma pace non c’è
(Ger 6,14);

Ingannano infatti il mio popolo dicendo: «Pace!», e la pace non c’è (Ez 13,10).

Può un credente accogliere il saluto del Risorto in simili frangenti? E – se sì – come?

La risposta è «sì», e questo è possibile per il fatto che la pace non è un prodotto umano, ma un dono divino.

La pace è un dono del Risorto

Nel vangelo della sesta Domenica di Pasqua ascolteremo queste parole:

«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27).

Come la dà il mondo (o come pretende di darla)?

Con la forza! Dopo che si è stabilito chi ha vinto e chi ha perso.

Ma – come ha ricordato il Papa all’Udienza generale del 13 aprile scorso:

La pace che Gesù ci dà a Pasqua non è la pace che segue le strategie del mondo, il quale crede di ottenerla attraverso la forza, con le conquiste e con varie forme di imposizione. Questa pace, in realtà, è solo un intervallo tra le guerre: lo sappiamo bene. La pace del Signore segue la via della mitezza e della croce: è farsi carico degli altri. Cristo, infatti, ha preso su di sé il nostro male, il nostro peccato e la nostra morte. Ha preso su di sé tutto questo. Così ci ha liberati. Lui ha pagato per noi. La sua pace non è frutto di qualche compromesso, ma nasce dal dono di sé. Questa pace mite e coraggiosa, però, è difficile da accogliere.

L’esperienza di san Giovanni

È da questa coscienza che nasce la fede degli apostoli, e che oggi vediamo testimoniata dall’Evangelista Giovanni.

I primi versetti dell’Apocalisse (libro che leggeremo nella seconda lettura di queste domeniche di Pasqua del ciclo liturgico “C”) ci presentano la situazione non proprio rosea vissuta dall’autore e da tutta la Chiesa:

Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.

Egli si rivolge – da cristiano perseguitato (esiliato nell’isola di Patmos) – a una comunità di fratelli che vivono anch’essi nella stessa tribolazione. Ciò che lo ha posto in questa situazione è la testimonianza di Gesù (il vocabolo testimonianza – in greco – è “martirio”).

In questo stato di prostrazione e sofferenza, Giovanni ha una visione, in giorno di domenica (magari quel «nel giorno del Signore» indica proprio il giorno di Pasqua).

Chi gli appare è il Figlio dell’Uomo, il Risorto, in persona, che pone la Sua mano su di lui, lo rassicura («Non temere!»), e gli infonde coraggio, un coraggio basato sul fatto che Lui è «il Primo e l’Ultimo, e il Vivente», Colui che era morto ma ora vive per sempre.

La rivelazione (questo è il significato della parola “Apocalisse”) che Giovanni riceve è che Gesù Risorto ha «le chiavi della morte e degli inferi», e perciò non c’è più nulla da temere.

Di questa verità riceve l’incarico di farsi testimone presso le sette Chiese dell’Asia minore.

Di cosa siamo testimoni?

È l’incontro col Risorto e la professione di fede in Lui (come quella di Tommaso) che rende possibili le condizioni per vivere nella pace, nonostante tutto attorno a noi sia malvagità, pericolo, persecuzione, ingiustizia.

Questo perché crediamo che Lui ha «le chiavi della morte e degli inferi», e quindi – come scrive anche san Paolo ai Romani:

tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio…

Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?

…Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?

…Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore (cfr Rm 8,28-39).

È questa la fede pasquale che ha fatto trovare la pace ai Santi di tutti i tempi, anche nei periodi più tenebrosi della storia.

L’esperienza dell’altro San Giovanni…

Ho appena terminato la lettura del Giornale dell’Anima, il “diario spirituale” del nostro caro Papa Giovanni XXIII, e sono rimasto molto colpito dai passaggi della sua vita che riguardano gli anni delle due guerre mondiali, in particolare il suo modo di saperle vivere e “attraversare” da grande uomo di fede.

Così scriveva il 23 maggio 1915, all’inizio del primo conflitto mondiale:

Domani parto per il servizio militare in sanità. Dove mi manderanno? Forse sul fronte nemico? Tornerò a Bergamo, oppure il Signore mi ha preparata la mia ultima ora sul campo di guerra? Nulla so; questo solamente voglio, la volontà di Dio in tutto e sempre, e la sua gloria nel sacrificio completo del mio essere. Così e solo così, penso di mantenermi all’altezza della mia vocazione e di mostrare a fatti il mio vero amore per la patria e per le anime dei miei fratelli.

(Giovanni XXIII, Il Giornale dell’Anima, 574, San Paolo 200013)

Nell’ora della prova, fare la volontà di Dio

Come Gesù nel Getsèmani, non si è fermato a deplorare la cattiveria degli uomini, ma ha rimesso tutta la sua volontà nella mani del Padre (cfr Lc 22,42); e così ha insegnato a fare a chi gli era affidato nel ministero.

Scriveva – infatti – il 14 novembre 1916, alle donne cattoliche nell’annuale funzione di suffragio in san Bartolomeo:

La terribile guerra, così dolorosa per tutti, è il calvario speciale delle madri e delle spose: essa le tiene, come la Vergine martire, in piedi presso la croce…

i doveri della donna cattolica nell’ora presente, io li riassumo sulla traccia di un illustre prelato francese in tre parole: accettare con rassegnazione, pregare con fervore, lavorare con generosità.

…la preghiera fa miracoli in ogni ordine di rapporti. Si crede che si possa vincere solo col coraggio e con le armi; ma chi non sa di quale efficacia sia la preghiera per le armi dei combattenti? In ginocchio, nelle chiese, le donne non difendono meno la patria dei soldati nelle trincee: forse l’opera loro è anzi più efficace.

(ib., 587-589)

Nonostante la sua insensatezza, la guerra può essere vissuta come luogo di affidamento totale al Signore, occasione per pregare, per sé e per il mondo intero.

Come pregare durante la guerra?

Ma anche la preghiera va educata dalla fede del Risorto, il quale non vuole instaurare la pace a discapito di nessuno.

Così scriveva – infatti – il 26 novembre 1940, durante gli Esercizi Spirituali a Tarabya, sul Bosforo, quando era Rappresentante Pontificio in Turchia:

Il pianto delle nazioni. Esso arriva al mio orecchio da tutti i punti di Europa ed anche da fuori. La guerra micidiale che imperversa sulla terra, sui mari, nei cieli, non è che una rivendicazione della giustizia divina, di cui si sono offesi e violati i sacri ordinamenti imposti al consorzio umano. Si è preteso, si pretende da qualcuno che Iddio debba preservare tale o tal altra nazione, o dare ad essa la invulnerabilità e la vittoria in vista dei giusti che in essa vivono, o del bene che pur vi si compie. Si dimentica che, se Dio ha fatto in qualche modo le nazioni, ha lasciato però la costituzione degli stati alla libera disputazione degli uomini. A tutti egli ha dettate le leggi della civile convivenza: il Vangelo ne è il codice. Ma non ha fatto garanzie di assistenza speciale e privilegiata che alla nazione dei credenti, che è la santa Chiesa in quanto tale. Ed anche l’assistenza alla sua Chiesa, se la preserva da ogni disfatta, non la garantisce né dalle tribolazioni, né dalle persecuzioni.

La guerra è voluta dagli uomini, ad occhi aperti, a dispetto di tutte le leggi più sacre. Per questo è tanto più grave. Chi la fomenta è sempre il «princeps huius mundi» (Gv 12,31) che nulla ha a vedere con Cristo, il «principe della pace» (Is 9,5).

E mentre la guerra si disfrena, non resta per i popoli altro che il Miserere e l’abbandono alla misericordia del Signore, affinché prenda il sopravvento sulla giustizia, e con una grazia sovrabbondante faccia rinsavire i potenti del secolo e li riconduca a propositi di pace.

(ib., 747-748)

La preghiera del credente è abbandono fiducioso alla misericordia di Dio. È questo atteggiamento che ha fatto di san Giovanni XXIII un uomo mite, sempre sereno anche nelle più grandi difficoltà, l’uomo della pace.

Quattro regole per la pace

Visto che ho citato ampiamente il nostro caro Papa Buono, concludo riportando le istruzioni che l’hanno guidato per tutta la vita nella ricerca della pace ad ogni costo. Sono tratte dal libro L’imitazione di Cristo, che Papa Giovanni ha letteralmente consumato a forza di leggere e meditare:

Le quattro cose che recano una vera grande pace

1. Studiati, o figlio, di fare la volontà di altri, piuttosto che la tua.

2. Scegli sempre di avere meno, che di più.

3. Cerca sempre di avere il posto più basso e di essere inferiore a tutti.

4. Desidera sempre e prega, che in te si faccia interamente la volontà di Dio.

(De Imitatione Christi, III, 23, 1, citata la prima volta ne Il Giornale dell’Anima al n.38)

Credo facciano bene anche a noi, se veramente vogliamo la pace, a partire dai nostri cuori, dalle nostre famiglie.