Il chiodo fisso. 30ª Domenica del Tempo Ordinario (A)

Il chiodo fisso

Amare gli uomini, in particolare i più piccoli e i poveri è il “chiodo fisso” di Dio. A questo “chiodo” siamo chiamati ad appendere la nostra vita cristiana.

Omelia per domenica 29 ottobre 2023

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Letture: Es 22,20-26; Sal 17 (18); 1Ts 1,5-10; Mt 22,34-40

Tre anni fa ho sviluppato la mia riflessione attorno al verbo “dipende”, spiegando che il testo greco paragona il precetto dell’Amore a un cardine, a cui sono appesi tutta la Legge e i Profeti.

Modi di dire

Quest’anno vorrei ripartire da quella suggestione usando un’altra immagine che fa parte del nostro modo di parlare: quella del chiodo.

In italiano abbiamo diversi modi di dire che usano questa parola: avere un chiodo fisso, appendere al chiodo, battere sempre sullo stesso chiodo, chiodo scaccia chiodo

Vorrei utilizzarle per suggerire alcuni pensieri sulle letture di oggi.

Una vita appesa al chiodo

Anzitutto, mi pare di poter dire che il messaggio che Gesù ci vuole dare con la Sua risposta al dottore della Legge è che il “chiodo” a cui appendere la nostra vita è l’Amore.

Tutto deve ruotare attorno all’Amore perché, se non è l’Amore a tenerla in piedi, la nostra vita è un’eterna sofferenza. È così per il lavoro, per le nostre occupazioni quotidiane… le cose o si fanno per amore oppure tutto risulta pesante e illogico.

Tra il «per forza o per amore» dobbiamo scegliere la seconda.

Il senso della nostra vita sta “appeso” a quel “chiodo” lì, e lo possiamo capire solo contemplando giorno per giorno Colui che – proprio per Amore – si è fatto inchiodare a una croce.

Due in uno

Gesù ha voluto subito chiarire che questo Amore non è qualcosa di immaginario, fatto di preghiere e celebrazioni liturgiche, ma si configura e si incarna negli atti concreti di amore verso i nostri fratelli: l’Amore di Dio non può realizzarsi se non attraverso l’Amore del prossimo.

Non sono due diversi precetti, ma uno la realizzazione dell’altro.

Anche questa dipendenza e inseparabilità dei due precetti l’ho spiegata tre anni fa citando san Giovanni:

Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede (cfr 1Gv 4,20).

Non un comando, ma una risposta

Ma non dobbiamo fare l’errore di pensare che il comandamento dell’Amore sia un’imposizione o una legge astratta; nel versetto precedente, infatti, l’apostolo fa un’affermazione fondamentale:

Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo (1Gv 4,19).

Dicevo che la nostra vita ha senso solo se è “appesa” all’Amore di Dio e del prossimo, ma è necessario anzitutto capire che il nostro amore per Dio e per il prossimo non ci sono richiesti per imposizione, ma sono la risposta libera e conseguente a un Amore che ci precede da sempre.

Come meditazione a questa affermazione, vi rimando per l’ennesima volta alla bellissima preghiera del grande filosofo e teologo Søren Kierkegaard che ho citato diverse volte:

…Signore, noi parliamo di Te come se ci avessi amato per primo in passato, una sola volta. Non è così: Tu ci ami per primo, sempre, continuamente… (continua a leggere la preghiera di Kierkegaard)

Il chiodo fisso

Insomma, Dio ha un “chiodo fisso”, un’ossessione, un assillo perenne: l’Amore per l’uomo, per le Sue creature, per il Suo popolo; tutta la Scrittura ce ne dà testimonianza.

Sempre Kierkegaard, chiosando san Gregorio Magno, diceva che «la Bibbia è la lettera d’amore di Dio a noi», per questo bisogna leggerla «come un giovane legge la lettera dell’amata: essa è scritta per me».

Dio non può far altro che amare, perché Dio è Amore (cfr 1Gv 4,8.16).

Amare gli uomini è la “mania” di Dio, e i privilegiati di questo Amore ossessivo sono anzitutto i più piccoli e indifesi; prova ne è il fatto di quante volte torni la raccomandazione di amare anzitutto le tre categorie-simbolo degli ultimi: «il forestiero, l’orfano e la vedova» (cfr Dt 14,29; Dt 16,11.14; Sal 146,9; Ger 7,6; Ger 22,3; Ez 22,7).

Mettersi nei panni dell’altro

La prima lettura di oggi lascia intravvedere come le raccomandazioni del Signore verso queste categorie derivino dal Suo essersi messo nei loro panni, da cui nasce l’invito a fare altrettanto:

«Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto.

…Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta… come potrebbe coprirsi dormendo?»

Sapersi immedesimare nei poveri e nei sofferenti è l’unico modo di imparare ad amare il prossimo come se stessi. In questa “immedesimazione” Dio ci ha indicato la strada con la Sua Incarnazione, prendendo su di Sé la nostra natura umana e condividendola in tutto, eccetto il peccato.

Quando Gesù ci chiede di amare il prossimo come noi stessi non dobbiamo fare l’errore tipico degli psichiatri, che raccomandano: «prima di tutto devi volerti più bene tu», non intendendo altro che un sonoro «fregatene di tutti e pensa solo a te stesso».

Quello che ci è richiesto è, invece, l’empatia, la capacità di gioire con chi gioisce e soffrire con chi soffre (cfr 1Cor 9,22; 1Cor 12,26; 2Cor 11,29), ovvero: il contrario dell’indifferenza globale che ammorba il nostro mondo, chiodo su cui batte sempre Papa Francesco.

Rinnegare noi stessi

Infine, per usare anche l’ultimo modo di dire (chiodo scaccia chiodo) non possiamo realizzare concretamente il precetto dell’Amore senza mettere in pratica l’istruzione di Gesù:

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24).

Non si tratta di disprezzare se stessi, ma di liberare il nostro cuore da quella presenza ingombrante che è il nostro “io” ipertrofico, che non lascia spazio a niente e a nessun altro che a noi.

L’Amore è possibile solo quando sa mettere Dio e gli altri prima di ogni altra cosa, anche dei propri interessi e bisogni (cfr Fil 2,3-4).