Io so che il mio redentore è vivo
Omelia per giovedì 3 ottobre 2024
In mezzo alle sofferenze innocenti che fanno piangere il mondo, noi cristiani siamo chiamati alla nonviolenza, affidandoci solamente a Cristo Redentore.
Letture: Gb 19,21-27; Sal 26 (27); Lc 10,1-12
Dopo la pausa per la memoria dei santi Angeli Custodi, ritorniamo ad ascoltare la voce di Giobbe, l’innocente sottoposto a indicibili e inspiegabili sofferenze.
Pietà di me!
Oltre alle sciagure abbattutesi sulla sua famiglia e alla tremenda piaga che lo consuma nel corpo, deve affrontare le accuse dei suoi tre “amici” che si schierano con Dio e contro di lui, aggravando il peso che schiaccia il suo cuore:
«Pietà, pietà di me, almeno voi, amici miei,
perché la mano di Dio mi ha percosso!
Perché vi accanite contro di me, come Dio,
e non siete mai sazi della mia carne?»
Un lamento che dura in eterno
In questa sofferenza estrema, Giobbe esprime il desiderio che almeno il suo lamento non sia dimenticato, ma rimanga impresso per sempre:
«Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro e con piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!»
Ebbene: questo desiderio si è avverato, e non solo perché noi dopo più di 2500 anni stiamo leggendo e meditando le sue parole ma, soprattutto, perché queste grida di dolore innocente continuano a rinnovarsi e riscriversi nella storia.
In questi giorni le stiamo ascoltando nuovamente salire dal Libano, da Gaza, dall’Ucraina… da tanti posti nel mondo dove gli innocenti sono sottoposti a immani sofferenze.
Certo: non dobbiamo essere sordi o ciechi come l’Europa, gli Stati Uniti e tutti i soci dell’orrore, e nemmeno come Benjamin Netanyahu, che crede di essere la “mano di Dio” e di avere il diritto di uccidere tutti indiscriminatamente sentendosi sempre dalla parte della ragione.
La sofferenza rende profeti
Pur sommerso da questo dolore immenso, Giobbe profetizza la risurrezione: è uno dei primi testi nell’Antico Testamento a lasciar intravedere la speranza nella risurrezione futura, anche del corpo.1
Nonostante tutto, egli proclama la sua indefettibile speranza in Dio: sa che Dio è dalla sua parte e che prima della sua morte (o anche dopo) si alzerà in giudizio al suo fianco come redentore2 e proclamerà davanti a tutti la sua innocenza.
Il nostro Redentore
È per questo motivo che il Lezionario ha scelto di inserire questo testo nelle letture che si possono utilizzare nel giorno della Commemorazione di tutti i fedeli defunti e dei funerali.
Per noi discepoli del Risorto, “Redentore” è diventato uno degli attributi principali di Gesù Cristo.
Gesù ci ha salvato e continua a salvarci, non solo dal peccato, ma da ogni male, in particolare dalla sofferenza che patiamo ingiustamente, specialmente per il nostro rimanere inermi e miti di fronte alle violenze perpetrate dalla cattiveria dei prepotenti.
Scegliere la nonviolenza
In questi giorni così segnati dalla violenza delle guerre e dall’indifferenza o connivenza dei “potenti della terra”, noi discepoli di Cristo Redentore siamo chiamati ad essere testimoni di pace, anzitutto rinunciando – come Giobbe – a qualsiasi forma di vendetta o di violenza, anche verbale.
Affidiamoci al nostro unico Salvatore, invochiamo la salvezza del mondo da Gesù Redentore, ricordando che Lui ci ha mandati «come agnelli in mezzo a lupi»,3 non a diventare “lupi” a nostra volta.
Ancora una volta propongo una giaculatoria del mio caro san Filippo Neri:
Signore, mi fanno violenza: rispondi Tu per me!
- In realtà, i versetti 25 e 26 sono di difficile traduzione e la Vulgata di san Girolamo ha influenzato a lungo l’esegesi cattolica con una traduzione che una conoscenza migliore delle idee teologiche di Israele ha reso improbabile. Questa era la traduzione della Vulgata: «So infatti che il mio redentore è vivo, nell’ultimo giorno sorgerò dalla terra, sarò circondato di nuovo dalla mia pelle e nella mia carne vedrò Dio». ↩︎
- Il termine gō’ēl in ebraico è un termine tecnico del diritto israelita (cfr Nm 35,19). Spesso viene applicato a Dio, salvatore del Suo popolo e vindice degli oppressi. Dal giudaismo rabbinico venne applicato al Messia, ed è forse per questo che san Girolamo traduce «il mio redentore». Giobbe, calunniato e condannato dai suoi stessi amici, attende un vendicatore che non è altri che Dio stesso; tuttavia, il contesto di questo capitolo – dove Dio è piuttosto l’avversario di Giobbe – non favorisce questa interpretazione. Il gō’ēl potrebbe essere qui il «grido di sangue» personificato, come in Gb 16,18-19, o un mediatore celeste che dovrebbe prendere le difese di Giobbe e riconciliarlo con Dio. Giobbe continua a credere ormai perduta la sua felicità e vicina la sua morte; tuttavia, spera di essere testimone della sua riabilitazione, di «vedere» il suo vendicatore. Sembra dunque che Giobbe (dopo aver immaginato in Gb 14,10-14 la possibilità di un’attesa nello Sheol), in uno slancio di fede in Dio che può far ritornare dallo Sheol (cfr 1Sam 2,6; 1Re 17,17-24; Ez 37), preveda un ritorno provvisorio alla vita corporea, per il tempo della vendetta. ↩︎
- Cfr Lc 10,3. Su questo tema si può rileggere quanto scrivevo in un’omelia di due anni fa: Agnelli, non lupi! Omelia per la 14ª Domenica del Tempo Ordinario (C) – domenica 3 luglio 2022. ↩︎