Stolto è chi dice sempre “mio”. 18ª Domenica del Tempo Ordinario (C)

stolto chi dice sempre mio

Letture: Qo 1,2;2,21-23; Sal 89 (90); Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21

Solo Luca riporta il passo che leggiamo in questa domenica, forse per la sua proverbiale attenzione al tema dei poveri e della povertà.

Tutto prende spunto dalla domanda che una persona rivolge a Gesù dal mezzo della folla. Si tratta della lite per l’eredità tra due fratelli: pare che il maggiore, valendosi del suo diritto di primogenito, non voglia spartire l’eredità paterna con il fratello minore.

Come ogni rabbino della società ebraica, Gesù viene chiamato a interpretare e applicare la legge biblica, che dirimeva non solo questioni spirituali, ma anche quotidiane e materiali.

Gesù però, come fa spesso, si rifiuta di fermasi alle questioni piccole e particolari, e invita i suoi interlocutori ad allargare l’orizzonte, a distogliere lo sguardo da “terra” e a volgerlo verso il cielo (si veda ad esempio la questione sulla giustizia o meno del tributo dovuto all’Impero Romano, in Mt 22,15-22).

Allargare l’orizzonte e guardare più in alto

È l’esortazione che ci viene fatta anche da san Paolo nella seconda lettura di oggi:

«Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra».

Nei secoli, il vangelo è stato frainteso in ogni modo sul tema del rapporto con la ricchezza.

Dall’esagerazione medievale in cui il denaro (e la ricchezza in generale) era considerato lo “sterco del demonio”, fino all’annacquamento odierno, secondo cui il vangelo non darebbe alcuna indicazione concreta e pratica all’uso dei beni, ma solo delle “indicazioni spirituali”.

Gesù invece ci dà un insegnamento concreto e certamente applicabile.

Lo fa dando a tutti e due i fratelli (e a noi) un avvertimento che aiuta ad andare alla radice del problema e a considerare le cose con lo sguardo di Dio:

«Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni».

La frase ha due verbi: «guardatevi» (fate attenzione) e  «tenetevi lontani» (custoditevi). Il secondo verbo riguarda il pericolo fuori di noi, il primo riguarda noi stessi, e fa riferimento a un altro livello di consapevolezza. Al pericolo che è fuori di noi occorre guardare in faccia, dagli un nome e un cognome.

Ma è ancora più importante capire che siamo noi stessi il soggetto vulnerabile da custodire e proteggere.

Il problema è dentro di noi

Guardate e custoditevi… Da chi? Da che cosa?

Dall’avere di più, sempre di più, un di più che divora la tua vita, che la svuota, rendendola un’inutile corsa verso il possesso, la bramosia, l’avarizia, l’avidità.

E queste tremende minacce non vengono da fuori. I beni e le ricchezze sono cose inanimate, non hanno un potere negativo in sé.

Gesù l’aveva già spiegato bene in altre occasioni (riferendosi per esempio ai cibi consentiti o proibiti dalla tradizione religiosa):

Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?»… Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno… Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo» (cfr Mc 7,18b-23).

Non sono le ricchezze il problema…

Gesù non condanna i beni materiali, le ricchezze, ma il desiderio sfrenato, la brama dei beni (cupidigia) che sta alla radice di tante liti familiari e dei conflitti sociali in genere (quante confessioni ho ascoltato di persone che si sono rovinate la vita davanti ad avvocati e notai per questioni di eredità!).

Per vivere c’è bisogno dei beni, certo (anche Gesù e i suoi discepoli ne facevano uso): ma la vita è dono gratuito di Dio, e non si può comprare, a nessun prezzo.

Per illustrare questo principio, Gesù racconta una parabola.

Presenta la situazione di un ricco proprietario agricolo al termine di una buona stagione. In tale situazione sono comprensibili la reazione e i progetti del fortunato impresario:

«Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni”…»

Il problema comincia nel seguito:

«Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia».

Il monologo dell’uomo ricco è incentrato tutto su se stesso. Egli parla dei «miei» raccolti, dei «miei» magazzini, dei «miei» beni, della «mia» anima.

In ebraico la parola «vita» si dice néphesh: “anima”. E qui, Luca, traducendo in greco, usa il vocabolo equivalente psyché.

In altre parole, l’uomo ricco si considera proprietario della sua vita, non solo quella materiale-fisica, ma anche quella spirituale-eterna (la sua anima), come se fosse uno dei tanti suoi beni, frutto del suo lavoro e della sua capacità imprenditoriale!

L’avidità ci rende profondamente soli

Il velo della sua illusione viene squarciato dalla voce di Dio che gli dice:

«Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?»

«Stolto» nella Bibbia è colui che nega Dio o lo disprezza:

«Lo stolto pensa: “Dio non esiste”» (Sal 14,1).

La conclusione della parabola di Gesù ha un precedente in una riflessione del Siracide:

«C’è chi diventa ricco perché sempre attento a risparmiare,
ed ecco la parte della sua ricompensa:
mentre dice: “Ho trovato riposo,
ora mi ciberò dei miei beni”,
non sa quanto tempo ancora trascorrerà:
lascerà tutto ad altri e morirà» (Sir 11,18-19).

Il richiamo divino non è un semplice «non fare i conti senza l’oste», un ricordare che «l’uomo propone e Dio dispone»…

Dio vuole scuotere l’uomo avido dalla solitudine nella quale si è cacciato, vuole denunciare l’avidità che rende così ciechi da essere tagliati fuori da mondo e dalla realtà.

Questo pover’uomo (nonostante sia tanto ricco), è così egoista che ormai parla a se stesso: non ha nessuno con cui condividere il risultato dei suoi sforzi, è profondamente solo, perché in questa sua corsa ha perso ogni relazione.

“Stolto”: una parola che folgora

Questa è una delle parabole più “fulminanti” del vangelo, nel senso dell’efficacia stringente.

Ogni parabola – infatti – mira a far sì che l’interlocutore si immedesimi nel personaggio principale, al punto da sentirsi – alla fine – irrimediabilmente “preso al laccio” dal racconto nel quale si è così intimamente rispecchiato.

Così le parole tremende che Dio rivolge al ricco stolto per scuoterlo dai suoi insensati progetti per il futuro, sono una tegola pesantissima che casca anche sulle nostre teste.

Non so se sia vero o no (non mi è stato possibile trovarne riscontro), ma tempo fa, un prete quasi mio coetaneo, sosteneva che (come per il vangelo integrale di Matteo) ci fosse in giro la traduzione in bergamasco di questa parabola, e citava, ridendo come un matto, la versione dialettale dell’ammonimento divino:

«Alà, bìgol! Tanto ‘sta nòcc ta sèchet fò!»

Dopo un primo momento di risata per la parolaccia (“bìgol”) che uscirebbe nientepopodimeno che dalla bocca dell’Onnipotente, mi è calato addosso il terrore.

E non per il senso di colpa di aver (anche solo per compartecipazione) assecondato col riso blasfemo una “profanazione” della parola evangelica, ma perché avevo compreso che davvero, quella parola – “stolto” (in greco àfron: “senza mente”) – non poteva essere resa meglio – in bergamasco – che così.

“Bìgol” è una parolaccia, perché deriva da qualcosa di sconcio. Ma nel dialetto bergamasco è usata per indicare in modo figurativo proprio una persona priva di capacità di ragionare, stupida, insensata.

Ecco il senso di quel lapidario «Stolto!».

È la messa in guardia dal rischio di perdere tutto, anche te stesso!

Se non custodisci giorno per giorno il tuo cuore dall’avidità, rischi di diventare uno “senza mente”, senza cuore, dissennato, irragionevole, insensibile… così distratto dalla sete di avere sempre di più da non ricordarti che sei destinato ad altro:

«Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima?» (Mc 8,36-37)

I beni vanno condivisi

L’essere umano che considera i beni unicamente per sé, come proprietà assoluta e garanzia di vita, è «stolto»: ha perso il senso dei beni e della vita.

Quante volte mi è capitato di sentirmi dire: «Io i miei soldi me li sono guadagnati onestamente e con fatica, quindi ne faccio quel che voglio!»

Al di là della profonda solitudine che tutto ciò crea, l’affermazione non tiene conto delle condizioni necessarie a poter conseguire la ricchezza materiale.

Anche quando sono il prodotto del proprio lavoro onesto, della propria abilità e intelligenza, i beni restano sempre un dono di Dio, che concede il tempo, la salute e l’intelligenza necessari a poter svolgere il proprio lavoro.

Ma se i beni sono un dono di Dio, sono per tutti, vanno condivisi!

La vera ricchezza è Dio

«Così è di chi accumula tesori per sé e non arricchisce davanti a Dio».

Qual è la differenza tra i due modelli indicati da Gesù?

Il risparmiatore (colui che «accumula tesori per sé») è colui che “mette in tasca”, tiene stretto il suo “malloppo”, un fardello che è sempre in pericolo e può sempre svanire da un momento all’altro (basta ripensare alle varie crisi economiche della storia moderna, o anche solo ai disastri del maltempo, che spazzano via in un secondo gli sforzi di una vita intera).

Chi si «arricchisce presso Dio» invece mette al sicuro le sue ricchezze:

«Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano» (Mt 6,19-20).

«Presso Dio» è una precisazione è fondamentale, perché indica che il traguardo non è la proprietà, ma Dio stesso.

Come ci ricordava san Paolo nella seconda lettura, non dobbiamo dimenticare che la nostra meta è Dio, là siamo diretti.

È Dio il senso della mia vita, non il denaro, non le cose.

Solo quando mi arricchisco presso Dio, il mio cuore è pieno di gioia, di pace, di riconoscenza!

Quando l’avremo imparato potremo anche noi cantare col salmista:

«Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita» (Sal 16,5).

Stare nelle mani di Dio è la ricchezza più grande: scoprire che siamo noi la Sua ricchezza e Lui la nostra.