Non disprezzare la correzione di Dio. 21ª Domenica del Tempo Ordinario (C)

la correzione di Dio

Letture: Is 66,18-21; Sal 116 (117); Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30

Gesù spesso non risponde alle domande che gli pongono. Quando sono fuori luogo “fa finta” di non sentirle.

Ma non rinuncia mai a cogliere l’occasione per ammaestrare.

Anche con quel tale che gli chiede «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» coglie la palla al balzo per far riflettere tutti sul fatto che la questione della salvezza non si pone in termini generali (tipo censimento dell’ISTAT), non è un affare che riguarda gli altri, ma riguarda anzitutto me.

È il modo unico ed efficace di Gesù di correggere.

La correzione al modo di Dio

Come quel dottore della legge che – venuto solo per trarlo in inganno – si ritrova a meditare seriamente sul comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, che sapeva solo a memoria ma non aveva mai vissuto per davvero. Non so con quale animo sia andato via dall’incontro con Gesù…

Sappiamo, per esempio, che se ne tornarono a casa meravigliati quei farisei che cercavano di trarlo in inganno con la questione della liceità o meno del pagamento del tributo a Cesare.

Sappiamo che rimasero con la bocca chiusa quei sadducei che erano andati ad interrogarlo sulla risurrezione (alla quale non credevano)…

Sappiamo che se ne andò via triste (a causa delle molte ricchezze che avrebbe dovuto abbandonare) quel giovane che voleva sapere come fare per avere la vita eterna.

La verità ci fa male…

Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei ci dice:

«sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza».

La correzione, il rimprovero, sono – per una persona – come la potatura per una pianta: il “moncherino” che rimane dopo il taglio netto sanguina, gocciola lacrime di tristezza.

La nostra persona, quando viene ripresa si sente “violata”, privata della sua volontà di autodeterminazione, messa con le spalle al muro di fronte all’evidenza del proprio errore (con tutti i risvolti dell’orgoglio ferito).

È l’esperienza che abbiamo fatto tutti, da piccoli.

Ed è ciò che facciamo ancora fatica ad accettare da adulti.

Saper accettare i rimproveri e le correzioni richiede grande umiltà.

Ma anche saper correggere (che è diverso da “sgridare”) richiede umiltà. E gentilezza. Altrimenti, invece di correggere, umiliamo le persone.

Saper correggere è altrettanto difficile

Come la mamma e il papà che rimproverano o mettono in guardia il loro bambino con un «guai!» se sta per toccare la pentola che bolle sul fornello.

E se non si ferma spontaneamente, magari gli danno una piccola sberletta sulla manina.

Non lo fanno mica per far del male al loro bambino… anzi!

Correggere non significa mortificare, ma aiutare la persona che si ama a stare lontana dal male, per sé e per gli altri.

Vale nel rapporto genitori/figli, nel rapporto di coppia, in un rapporto di vera amicizia…

Deve valere sopratutto nel rapporto Dio/credente. Invece noi siamo ancora fermi al concetto delle “punizioni di Dio”, come i pagani!

Gli ingredienti di una correzione amorevole

Choose kind: scegli la gentilezza

Poco fa ho associato all’umiltà la parola “gentilezza” perché proprio ieri ho concluso il Campo-Scuola coi ragazzi delle medie che aveva come “filo-rosso” a guidarci il film (e il romanzo di R.J. Palacio) Wonder.

Il primo dei precetti che il professor Browne dona ai suoi alunni di prima media è:

«Quanto ti viene data la possibilità tra avere ragione ed essere gentile, scegli di essere gentile».

E il discorso finale del Preside Tushmann agli studenti della scuola ha questo passaggio luminoso:

«C’è una frase meravigliosa, in un libro di J.M. Barrie che si intitola L’uccellino bianco

l’autore scrive: “Non dovremmo forse inventare una nuova regola di vita… cioè cercare di essere sempre un po’ più gentili del necessario?”

…“Più gentili del necessario: che frase meravigliosa, non è così? Più gentili del necessario. Perché non è sufficiente essere gentili. Bisogna essere più gentili di quanto ci viene richiesto. Il motivo per cui amo questa frase, questo concetto, è perché mi rammenta che portiamo con noi, in quanto esseri umani, non solo la capacità di essere gentili, ma prima di tutto la gentilezza come vera scelta di vita…

Se ogni singola persona presente in questa sala assumesse come regola quella di cercare, ovunque si trovi e ogni volta che ne abbia la possibilità, di comportarsi in modo un po’ più gentile del necessario, qualcun altro, da qualche parte, un giorno, qualcun altro potrebbe riconoscere in voi, in ognuno di voi, il volto di Dio…»

Dio ci guarisce con la gentilezza

Dio è così: gentile. Anzi: un po’ (molto) più gentile del necessario, perché – pur avendo (sempre) ragione – non mortifica l’uomo quando lo corregge, ma lo guarisce.

Ci sono due testi bellissimi nell’Antico Testamento, a riguardo.

Il primo, tratto dal libro della Sapienza:

Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose,
perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto.

La tua forza infatti è il principio della giustizia,
e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti.
Mostri la tua forza
quando non si crede nella pienezza del tuo potere,
e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono.

Padrone della forza, tu giudichi con mitezza
e ci governi con molta indulgenza,
perché, quando vuoi, tu eserciti il potere.
Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo
che il giusto deve amare gli uomini,
e hai dato ai tuoi figli la buona speranza
che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento (Sap 12,13.16-19)

Il secondo, tratto dal libro di Giobbe:

Felice l’uomo, che è corretto da Dio:
perciò tu non sdegnare la correzione
dell’Onnipotente,
perché egli fa la piaga e la fascia,
ferisce e la sua mano risana (Gb 5,17-18. Traduzione CEI 1974).

Perché siamo Suoi figli

È proprio il concetto espresso nel brano della seconda lettura di oggi:

«Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore
e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui;
perché il Signore corregge colui che egli ama
e percuote chiunque riconosce come figlio

È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati.»

Dio ci corregge perché ci ama, perché siamo i suoi figli, ciò che ha di più prezioso.

E subito, mentre ci corregge, ci avvolge di amore e tenerezza, come solo Lui è capace di fare.

È questa la misericordia divina: giustizia e bontà, fuse in modo unico e mirabile.

Ecco perché solo nel Sacramento della Riconciliazione possiamo trovare la pace!

Solo Dio – correggendoci e amandoci allo stesso tempo – può ridonare la pace al nostro cuore ferito dal peccato!

La porta stretta è l’umiltà

Come è legato tutto questo discorso sulla correzione all’argomento del vangelo?

Abbiamo detto che correggere è qualità di chi ama. E non si può amare veramente se si è incapaci di umiltà (e di gentilezza).

Ecco perché Gesù oggi invita tutti a sforzarci di «entrare per la porta stretta».

Ancora una volta dobbiamo toglierci dalla testa l’idea che la “porta stretta” alluda alla difficoltà di entrare nel Regno di Dio, come se vi fosse una selezione tipo quella dei concorsi per entrare alla Facoltà di Medicina, o le selezioni degli ambienti sportivi, o televisivi…

La porta stretta è in realtà una porta “piccola”, bassa, per entrare nella quale occorre essere umili, mettersi in ginocchio.

Può essere utile – per capire questo concetto – pensare alla porta della Basilica di Betlemme, detta “Porta dell’Umiltà”.

È vero: storicamente il portone originale fu ridotto sempre più per impedire l’ingresso dei soldati a cavallo.

Ma – nei secoli – tale conformazione architettonica suggerì il significato spirituale dell’umiltà.

L’umiltà mirabile del Figlio di Dio che – per entrare nel mondo, per incarnarsi – si abbassò fino alla spoliazione totale di sé (cfr Fil 2,5-11).

L’umiltà che è richiesta all’uomo quando vuole entrare al cospetto di Dio (come il pubblicano nel tempio).

L’umiltà richiesta all’uomo quando – anche dovendolo correggere – si mette al cospetto del proprio fratello in ginocchio, perché vi scorge dietro il volto stesso di Dio.