Obiezione di coscienza. 3ª Domenica di Pasqua (C)

Obiezione di coscienza

Prima ancora che una disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza del cristiano è un rinnegare il proprio “io”, per fare affidamento solo sulla Parola di Dio

Letture: At 5,27-32.40-41; Sal 29 (30); Ap 5,11-14; Gv 21,1-19

C’è una frase che fa da chiave di lettura alla Liturgia della Parola di questa domenica, ed è la risposta di Pietro e degli altri apostoli al sommo sacerdote:

«Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini».

Già al capitolo precedente – dopo il primo arresto – Pietro e Giovanni avevano replicato così:

«Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (cfr At 4,15-20).

Obiezione di coscienza

Quella proclamata da Pietro e dagli altri apostoli ha tutta l’aria di essere un’obiezione di coscienza contro il potere costituito di allora.

Oggi – nonostante parecchie polemiche negli ultimi anni – il diritto all’obiezione di coscienza è garantito dal nostro ordinamento giuridico, ma allora non era così: professare idee religiose o politiche diverse rispetto a quelle vigenti poteva costare caro.

Ne ha fatto esperienza lo stesso Nostro Signore, che per rendere testimonianza alla verità, fu messo in croce (cfr Gv 18,37-38).

Bisognava essere piuttosto coraggiosi, a quel tempo, per mettere in campo un atto di disobbedienza civile o religiosa… Anche Pietro lo sapeva bene, perché proprio nel frangente che lo chiamava a schierarsi per il suo Maestro aveva ceduto alla codardia: lui che a Gesù aveva promesso «darò la mia vita per te!», poi si era fatto impaurire da una ragazzina che gli chiedeva conto se fosse o no un discepolo del Nazareno (cfr Gv 13,37 e Gv 18,15-18.25-27).

La grande trasformazione

Ma è lo stesso Pietro del rinnegamento quello che troviamo di fronte al Sinedrio nella prima lettura di oggi?

Sembrerebbe un’altra persona, e invece è proprio lui: qualcosa (o Qualcuno) l’ha trasformato radicalmente. Cosa è accaduto a questo pescatore di Galilea dal carattere focoso, istintivo e incoerente?

Gli Atti degli Apostoli ci narrano che l’origine di questa trasformazione è la discesa dello Spirito Santo, che mediteremo e rivivremo nella solennità di Pentecoste, alla fine del Tempo Pasquale (cfr At 2,1-11).

L’evangelista Giovanni – però – anticipa questa effusione dello Spirito già al giorno di Pasqua (come abbiamo ascoltato settimana scorsa):

Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo…» (Gv 20,22).

Non solo; riguardo a Pietro il quarto evangelista inserisce un incontro pasquale col Risorto che ne segna una profonda svolta e conversione: è la seconda parte della pagina evangelica odierna.

Andiamo a “pescare”?

Quella che Giovanni (o un suo discepolo) aggiunge tardivamente come seconda conclusione del suo vangelo non è il racconto della pesca miracolosa che troviamo in Lc 5,1-11 traslato in un altro contesto: probabilmente (come spesso accade nel quarto evangelo) è la rilettura pasquale di un fatto realmente accaduto ma che allude a tutt’altro significato.

La frase di Pietro («io vado a pescare») e la risposta degli altri sei compagni («veniamo anche noi con te») non sta a indicare il ritorno alla vita di prima (di semplici pescatori di pesce), ma la probabile simbolizzazione della fatica del quotidiano che la Chiesa nascente stava già vivendo alla fine del primo secolo.

C’è solo un pugno di discepoli – neanche tutti e undici (tanti quanti erano rimasti) – che rappresenta la comunità di Gesù, piccola minoranza nel “mare” del mondo ostile di allora; c’è il “Papa” che – con buona volontà – prende l’iniziativa di una pesca che non è di pesci, ma di evangelizzazione; c’è la disponibilità dei suoi collaboratori a seguirlo nell’impresa…

«ma quella notte non presero nulla».

Una pesca infruttuosa, un lavoro e una fatica senza risultati stanno ad indicare qualcosa? Credo di sì: Pietro può anche prendere l’iniziativa, ma senza la parola, il comando e l’indicazione del Signore, la “pesca” resterà sterile, la missione senza frutti.

Revisione pastorale

Questa pagina forse è servita alla Chiesa di allora (e serve anche oggi alla nostra Comunità) per fare una revisione pastorale, per analizzare le proprie stanchezze e fatiche e individuarne il motivo.

Perché ci sembra di fare un sacco di sforzi e di iniziative e di concludere sempre meno?

È colpa della pandemia? È perché «non ci crede più nessuno», perché il mondo è secolarizzato? O perché stiamo “pescando” di testa nostra, senza ascoltare le indicazioni del Maestro?

Già… è solo quando Pietro e gli altri ascoltano il comando di Gesù che la pesca non solo funziona, ma va oltre ogni aspettativa.

Conversione interiore

Pietro avrebbe potuto rispondere da pescatore esperto, come aveva fatto nella versione di Luca (cfr Lc 5,5), alludendo al fatto che se non si era preso nulla tutta la notte (quando i pesci abboccano) è da sciocchi tentare in pieno giorno… Invece ascolta, docile e – ancora una volta – si fida di Gesù:

«sulla tua parola getterò le reti».

Invece di obbedire alle logiche umane, obbedisce alla voce di Dio.

Eccola l’obiezione di coscienza, il «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini»! Prima ancora che una “lotta” di disobbedienza civile all’esterno, è una battaglia da combattere nel proprio cuore: è da lì che deve nascere l’obiezione.

Ciò ci aiuta a capire anche il senso più profondo delle ultime battute del brano:

«quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi».

Queste parole di Gesù non alludono solo (come dice il testo) a «con quale morte egli avrebbe glorificato Dio», ma alla profonda conversione e trasformazione che Pietro doveva operare dentro di sé per arrivare a guadagnare la forza necessaria per opporsi al Sinedrio e alle persecuzioni: imparare a “ragionare” secondo Dio, a partire dalle cose più ordinarie e quotidiane.

Riemergere

La conversione di Pietro nasce da un incontro del tutto personale col Risorto, che lo aiuta a ripercorrere tutta la sua storia. La triplice domanda di Gesù richiama il suo triplice rinnegamento: davanti ad un fuoco aveva avuto paura (cfr Gv 18,18) e ora – davanti ad un fuoco di brace – riprende coraggio.

Il racconto allude anche – simbolicamente – ai Sacramenti: il Battesimo nel riemergere dall’acqua da parte di Pietro, e l’Eucaristia nel fuoco di brace col pesce e il pane già preparati (la traduzione «Simon Pietro salì nella barca» è profondamente sbagliata: il testo greco dice solo «Pietro salì», alludendo al suo riemergere dall’acqua mentre trascina a terra la rete della Chiesa senza farla spezzare, ovvero conservandone l’unità).

Scoprirsi amati

C’è un sottile gioco di verbi nell’intimo dialogo tra il Risorto e Pietro: mentre le prime due volte Gesù gli chiede se lo ami (usando il verbo agapáo), la terza volta gli chiede solo: «Mi vuoi bene?» (con il verbo philéo usato da Pietro per rispondere).

Gesù apprezza e accoglie l’umiltà di Pietro, il rude pescatore di Galilea, che ormai sa bene di non poter dire «ti amo», con quell’agápe che è solo di Dio: non è più il presuntuoso che prometteva di dare la vita per Gesù (cfr Gv 13,37).

Ormai è incamminato sulla via del divenire anziano, maturo spiritualmente, umile perché umiliato, avendo compreso di essere una “roccia” fragile, che al primo spirare del vento affonda (cfr Mt 14,30), ma ciò nonostante (anzi: proprio per questo) infinitamente amato dal suo Maestro.

Per lui la vita è stata tutta una lezione, ma – proprio per questo – ora può essere il pastore di agnelli e di pecore sperdute.

«Tu conosci tutto»

«Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene».

Da sempre sono particolarmente legato alla terza risposta di Pietro, ma lo sono ancora di più da quando ho terminato di leggere Il Giornale dell’Anima del nostro caro Papa Giovanni, perché ho scoperto che era il passo di vangelo al quale era più affezionato anche lui.

Fin dalla prima giovinezza, riflettendo sulle proprie debolezze, Angelo Giuseppe Roncalli prese coscienza di essere infinitamente amato da Dio e, quindi, chiamato a volergli sempre più bene. Scriveva infatti il 27 febbraio 1898, all’età di 16 anni:

Iddio lo sa, anche in mezzo alle mie miserie, io gli voglio bene e desidero che tutti glielo vogliano. Egli mi benedica, e non voglia sdegnarmi, quantunque io sia peccatore: «Domine, tu scis quia amo te» (Gv 21,17).

(Giovanni XXIIIIl Giornale dell’Anima, 60, San Paolo 200013)

Questo versetto del vangelo diventò un ritornello ricorrente, ad ogni corso di Esercizi Spirituali, fino agli ultimi giorni della sua vita, ormai Papa in procinto di aprire il Concilio Vaticano II:

Il mio ritiro… in preparazione diretta e personale al Concilio, oggi prende fine, pur non essendo riuscito, come desideravo, tutto e solo nello scopo e spirito che mi ero prefisso…

Signore Gesù, colma le mie deficienze. «Domine, tu omia nosti; tu scis quia amo te» (Gv 21,17).

(ib., 1041)

Obbedienza è sequela e martirio

Insomma, la vera “obiezione di coscienza”, prima ancora di essere un opporsi fermamente al «così fan tutti» del mondo, è un «rinnegare se stessi» (Lc 9,23), sapendo che non possiamo fare affidamento sulle nostre forze, ma solo sull’Amore di Dio che ci ama nonostante le nostre fragilità, le nostre debolezze, le nostre incongruenze.

Solo dopo aver preso coscienza di questo Amore avremo la forza per disobbedire agli uomini e obbedire a Dio, perché obbedire non significa rinunciare alla propria volontà, ma sapere che c’è una sola Parola che salva e che rimane fedele per sempre: quella del Signore.

Imparare a fidarsi solo del Signore è una sorta di “morte” quotidiana, che tante volte ci chiede di assecondare decisioni che non vorremmo: la debolezza dell’anzianità prefigurata da Gesù a Pietro è il “martirio bianco” del morire a se stessi ogni giorno.

Questo significa essere discepoli, seguire Gesù; ecco perché l’ultima parola di Gesù a Pietro è proprio come la prima: «Seguimi!» (cfr Gv 1,42-43).

Si può seguire il Signore anche nella passività, nel fallimento, nel cedere ad altri le proprie facoltà: non è quello che ha fatto Gesù stesso, consegnandosi in balia di altri che hanno fatto di lui ciò che hanno voluto (come era avvenuto anche per Giovanni il Battista)?