Ospitalità è prendersi cura. 16ª Domenica del Tempo Ordinario (C)

Ospitalità non è un ristorante

Raccontando l’ospitalità di Betania, Luca completa la parabola del buon Samaritano, e ci aiuta a capire cosa significhi «prendersi cura» del nostro prossimo.

Commento alle letture di domenica 17 luglio 2022

Letture: Gen 18,1-10; Sal 14 (15); Col 1,24-28; Lc 10,38-42

Uno dei temi centrali della Parola di Dio di questa domenica è l’ospitalità: quella di Abramo nei confronti dei tre misteriosi uomini che passano a fargli visita, e quella di Marta e Maria per Gesù che è in cammino verso Gerusalemme.

Ma non dobbiamo fare l’errore di leggere questa pagina di vangelo come un quadretto a se stante: Luca lo colloca di proposito immediatamente dopo la parabola del buon Samaritano (indipendentemente dal fatto che la cronologia degli eventi fosse esattamente quella).

Dalla parabola alla vita

La ragione è che questo quadro di “vita reale” di Gesù serve a complemento e completamento della suddetta parabola: quello che Gesù ha raccontato per immagini ora lo rende visibile – in concreto – nelle Sue azioni.

Anche se – a prima vista – non sembra aver nulla a che fare, potremmo dire che la sosta di Gesù a Betania è la raffigurazione reale di quanto descritto nella parabola del buon Samaritano.

Ma come?

Betania è la “locanda” della Chiesa

Commentando il brano di domenica scorsa, dicevo che noi – come Chiesa – siamo l’albergo nel quale il Samaritano conduce il povero assalito dai briganti: siamo chiamati ad essere quella «casa che accoglie tutti» dove Gesù porta l’umanità aggredita e ferita perché essa venga accudita e curata «fino al Suo ritorno».

Ebbene, a Betania, a chiedere ospitalità e ricovero è il povero per eccellenza: Cristo, Colui che – spogliandosi di ogni privilegio – ha deciso di farsi servo obbediente fino alla morte, e sta proprio andando incontro alla morte di croce (cfr Fil 2,5-11).

Accogliere il povero è accogliere Cristo, e accogliere Cristo è accogliere tutta l’umanità piagata e ferita.

L’ospitalità è sacra

Ce lo attesta la Scrittura, che nasce in una cultura (quella ebraica) per la quale l’ospitalità è sacra, come attesta il racconto di Abramo nella prima lettura. Alludendo a quella pagina della Genesi, la Lettera agli Ebrei ci raccomanda:

Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli (Eb 13,2).

Questa ospitalità è diventata la regola anche dei cristiani, in particolare dei Benedettini, che tanto hanno influenzato lo spirito cristiano di tutta l’Europa (come dicevo l’altro qualche giorno fa, nella festa di san Benedetto).

La Regola di San Benedetto dedica l’intero capitolo 53° all’accoglienza degli ospiti:

Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: «Sono stato ospite e mi avete accolto»

e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri confratelli e ai pellegrini.

Quindi, appena viene annunciato l’arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore.

(San Benedetto, Regola LIII,1-3)

Già su questo punto dovremmo farci un bell’esame di coscienza, e domandarci se la stessa ospitalità che ha caratterizzato per quasi due millenni anche il cristianesimo sia ancora una caratteristica dei cristiani di oggi: tutti, non solo i monaci.

Ma cosa vuol dire “prendersi cura”?

Il brano di Marta e Maria ci aiuta ad entrare in quell’albergo, in quella «casa che accoglie tutti» per capire come si debba approntare l’ospitalità.

Come ho scritto nel titolo di questa riflessione, ospitalità è prendersi cura dell’ospite; lo capiamo dall’atteggiamento personale e dalla raccomandazione del buon Samaritano:

…lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui…» (cfr Lc 10,34-35).

Ma cosa significa prendersi cura? È darsi da fare correndo a destra e sinistra tra stoviglie, padelle, dispensa etc. come Marta?

Certamente sì! Se non si vuole far mancare nulla all’ospite, bisogna darsi da fare, come Abramo nella prima lettura:

Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro.

Prendersi cura non è solo “fare”

Notiamo che Abramo non viene rimproverato per la sua frenesia, mentre Marta sì. Perché?

Si è più volte commentata questa pagina arrampicandosi sui vetri, cercando di “tenere assieme” Marta e Maria, con l’allegoria di vita attiva e vita contemplativa, che andrebbero sapientemente amalgamante nel cammino spirituale di ogni cristiano…

Ma vorrei fare un “affondo” ulteriore, cercando di capire perché la scelta di Maria sia indicata da Gesù come la più giusta.

Gesù dice che «Maria ha scelto la parte migliore»… In realtà il testo greco dice che «ha scelto la parte buona».

Cosa significa questo “buona”?

Credo che Luca intenda indicarci nell’atteggiamento di Maria il “succo” dell’ospitalità, ovvero il bene che si nutre per l’ospite (inteso come affetto, amicizia, amore), raffigurato in modo plastico nel suo stare seduta ai piedi di Gesù e nel pendere dalle Sue labbra.

Amare l’ospite

L’ospite non è semplicemente un “cliente del ristorante”, da servire con solerzia e di tutto punto perché poi dia un giudizio positivo su Tripadvisor: l’ospite è una persona, che ha bisogno anzitutto di ascolto, attenzioni umane, tenerezza nei gesti e nello sguardo…

Questo è il secondo esame di coscienza che ci fa fare Luca: in questa «casa che accoglie tutti» che è la Chiesa come ci siamo organizzati? Siamo tutti indaffarati – ciascuno col suo compito – per non far mancare nulla ai poveri (cibo, vestiti, docce, dormitori…)?

Certamente sì: le file alle mense dei poveri crescono sempre più, e i cristiani – in questo – di distinguono da sempre… Ma occorre tener sempre presente quel richiamo di Papa Francesco ribadito più volte (fin dalla sua prima omelia): «la Chiesa non deve ridursi ad una ONG pietosa».

Non basta fare cose e fare tanto, e nemmeno fare tutto quello che lo Stato dovrebbe fare e non fa… occorre anzitutto amare il povero e verificare di giorno in giorno che ogni singolo atto, azione, organizzazione caritativa sia un atto d’amore.

Non per nulla la Caritas ha chiamato “Centri d’Ascolto” i suoi “sportelli” di accoglienza.

Non dimentichiamolo, nemmeno nelle cose più quotidiane e in famiglia: i genitori ameranno i loro figli se anzitutto li ascoltano, non se si limitano a non fargli mancare nulla e fanno i salti mortali per “scarrozzarli” a judo, calcio, chitarra, danza etc. …