Ottimismo ingenuo? 15ª Domenica del Tempo Ordinario (A)
Quello di Gesù nel descrivere i frutti abbondanti della semina non è ottimismo ingenuo, ma perfetta conoscenza della larghezza dell’Amore di Dio.
Omelia per domenica 16 luglio 2023
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Letture: Is 55,10-11; Sal 64 (65); Rm 8,18-23; Mt 13,1-23
Entriamo oggi nel capitolo 13 del Vangelo di Matteo, quello del Discorso in parabole.
C’è così tanta gente attorno a Gesù che gli tocca “prendere le distanze”, e salire su una barca per creare una sorta di “palco” da cui parlare verso quell’anfiteatro naturale che è l’insenatura sulla spiaggia del lago di Tiberiade.
La parabola descrive il contesto
La prima parabola, quella del seminatore, è un po’ la rappresentazione plastica di questa situazione: ci sono tante persone accorse attorno al nuovo Rabbì, ma non tutti sono lì per lo stesso motivo e con la stessa intenzione.
Qualcuno non sa come passare il tempo, qualcuno è curioso, qualcuno si è fatto trascinare da un conoscente, qualcuno è una spia mandata dai farisei e dai sommi sacerdoti… qualcuno è in attesa di Parole di Vita che lo salvino.
Eccoli lì i terreni che Gesù descrive, quasi come a dire: le mie parole sono le stesse per tutti, ma non tutti siete qui per ascoltarle ed accoglierle nel profondo del cuore perché diventino guida alla vostra vita.
Non basta avere le orecchie
Davanti a questa situazione caotica, Gesù annuncia comunque il Regno dei cieli, senza farsi scoraggiare, ma termina il racconto in modo perentorio:
«Chi ha orecchi, ascolti».
Rivolgerà lo stesso invito anche ai Suoi discepoli, al termine della spiegazione della parabola della zizzania.
La capacità uditiva non basta: occorre utilizzarla al meglio. Occorre servirsi delle orecchie del cuore, altrimenti saremo come le persone giunte lì senza una motivazione precisa, che
«guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono».
Non basta correre dietro a Gesù, e non basta nemmeno sentire cosa dice: occorre ascoltare, far scendere nel profondo del cuore la Sua Parola, così che trovi terreno buono e fertile, e non resti in superficie, come sulla terra battuta.
Inguaribile ottimismo
Ho già fatto notare nell’omelia di tre anni fa che la spiegazione della parabola inserita nel brano è una lettura della prima comunità cristiana, e ci fa puntare tutta l’attenzione sui diversi terreni e i diversi esiti della semina.
Essa, invece, letta senza alcuna chiosa, deve farci notare la smisurata larghezza del gesto con cui il seminatore sparge il suo seme, tanto che un sacco di semente finisce pure sulla strada, tra i sassi e tra le spine.
Perché tutto questo spreco e disattenzione nel gettare il seme?
Perché Dio “soffre” di un inguaribile ottimismo: quello di credere fermamente che la Sua Parola e il Suo Amore sono più forti di ogni cosa, anche delle “orecchie foderate” e dei cuori induriti degli uomini.
E già qui avremmo tanto da imparare, soprattutto noi preti, ministri della Parola, come ci ricorda l’apostolo Paolo:
Tenete presente questo: chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà (2Cor 9,6).
Il Regno verrà, cascasse il mondo
Anche se la parabola ascoltata oggi non comincia (come le sei successive) con l’introduzione canonica «Il regno dei cieli è simile a…», è pure essa riferita al Regno; infatti, alla domanda dei discepoli sul motivo per cui Egli parli alle folle in parabole, Gesù risponde:
«Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli».
Il tema centrale, dunque, è anche qui il Regno e la sua incredibile forza di crescere nel mondo, nonostante la sua apparente insignificanza, come capiremo dalle due parabole del granello di senape e del lievito (cfr Mt 13,31-33).
Un ottimismo non ingenuo
Da questo punto di vista, la conclusione della parabola odierna è strabiliante:
«Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno».
Altro che ottimismo! Secondo le ricerche degli studiosi, con le tecniche agricole disponibili all’epoca di Gesù, nel migliore dei casi, un sacco di semente ne avrebbe fruttati undici, altro che trenta, sessanta o addirittura cento!
Quello di Gesù, però, non è un ottimismo ingenuo: il Suo sguardo positivo sull’esito del raccolto di questa semina deriva dalla conoscenza perfetta del cuore del Padre, ricco di bontà e misericordia, nonché dalla Sua fiducia nell’uomo e nella Sua capacità di accogliere con gioia il Vangelo.
Perché diciamo «venga il tuo regno»?
Ma se il Regno dei cieli ha tutta questa forza ed è capace di frutti così abbondanti, perché ogni giorno, nel Padre Nostro, preghiamo dicendo «venga il tuo regno»?
Perché – se è pur vero che, cascasse il mondo, il regno dei cieli verrà – esso non si instaurerà dentro di noi finché noi non lo accoglieremo con libertà e umiltà.
Nelle “puntate precedenti”, infatti, Gesù ci ha detto:
«Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (cfr Mt 7,21).
«Infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (cfr Mt 5,20).
Cominciamo con lo stare per terra
Il Regno dei Cieli è già presente in questo mondo, ma per ora appartiene solo ai poveri in spirito e ai perseguitati per la giustizia (cfr Mt 5,3.10), insomma, ai miti e agli umili, di cui ragionavamo domenica scorsa.
Perciò, prima ancora di chiederci che tipo di terreno siamo o vogliamo essere, cominciamo, anzitutto ad essere terra, humus, a stare coi piedi per terra, perché finché non scenderemo dal piedistallo dove spesso ci innalziamo o non planeremo dal cielo in cui spesso svolazziamo guardando tutti dall’alto verso il basso, il seme nemmeno ci cadrà addosso!