Perché abbiamo un corpo? Festa di santo Stefano

Farsi corpo

Il sacrificio di Stefano, che dona il suo corpo e tutto se stesso per testimoniare Cristo, ci illustra il senso e il significato profondo dell’Incarnazione.

Omelia per lunedì 26 dicembre 2022

Letture: At 6,8-12;7,54-60; Sal 30 (31); Mt 10,17-22

Ascoltare dell’uccisione violenta di Stefano, primo martire, e le parole di Gesù nel vangelo di questa festa stona proprio nel giorno immediatamente successivo al Natale, no?

Perché non possiamo continuare con le nenie, le lucine, i panettoni etc.?

Cosa c’entra tutto questo sangue col Natale?

Giorno natalizio

I cristiani, fin dai primi secoli, hanno iniziato a chiamare “giorno natalizio” la data della morte gloriosa dei martiri e dei santi, volendo ricordare a tutti che l’inizio della vera vita è quello che apre le porte al Paradiso e alla comunione definitiva con Dio.

Così è per Stefano, “apripista” di questa lunga schiera, come ci ricorda la preghiera di Colletta:

Donaci, o Padre, di esprimere con la vita
il mistero che celebriamo
nel giorno natalizio di santo Stefano primo martire…

Ma non è solo per questo flebile richiamo che la ricorrenza di santo Stefano è stata posta in questa data fin dai primi secoli.

I cieli sono aperti

Non è nemmeno la dichiarazione dello stesso Stefano di fronte al Sinedrio (che richiama la verità teologica profonda del Natale):

«Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio».

Ovvero: da quando Dio – incarnandosi – ha squarciato i cieli ed è sceso su questa terra, ha definitivamente riaperto la via che era stata chiusa dal peccato di Adamo e ha ricongiunto la terra al cielo.

Il senso dell’Incarnazione

Il motivo vero è il corpo di Stefano offerto in sacrificio, che illustra e spiega il significato profondo dell’Incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo.

Perché Dio ha ritenuto importante prendere un corpo per venire nel mondo? A che gli serviva?

Ce lo spiega benissimo san Giovanni evangelista all’inizio della sua prima lettera (che ascolteremo domani, nella ricorrenza festiva di questo santo):

Figlioli miei, quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza… (cfr 1Gv 1,1-4).

Quel Verbo, quella Parola eterna del Padre, nel Natale di Cristo si è fatta carne (cfr Gv 1,14) – come annuncia all’inizio del suo vangelo – e così si è resa udibile non più e solo per mezzo dei profeti, ma attraverso la Sua stessa voce (cfr Eb 1,1-2), si è fatto vedere nella Sua essenza materiale e corporea, e si è fatto toccare!

La meraviglia di avere un corpo

Con quanta meraviglia lo racconta Giovanni, fino a ricordare con calore e affetto (quasi interrompendo la sua alta teologia) il primo incontro col corpo di quel “Dio in carne ed ossa”:

Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio (cfr Gv 1,35-39).

Come faremmo noi a comunicare noi stessi se fossimo puro spirito, se non avessimo un corpo? Come potremmo ridere, piangere, urlare, sussurrare, abbracciare… e perfino prenderci a pugni?

Dio ha “sentito” quanto bisogno avessimo di toccarlo, vederlo, abbracciarlo, ascoltarlo dal vivo… per questo ha preso un corpo come il nostro, per quanto segnato dalla povertà e fragilità della carne umana (già: quel bambino sta «al freddo e al gelo» – come cantiamo in questi giorni – fin dal primo istante in cui ha preso su di Sé questa nostra povera carne mortale).

L’onda lunga della pandemia

Abbiamo sentito forte la “privazione” della nostra corporeità nei giorni più duri della pandemia, soprattutto col lockdown del marzo 2020, ma poi anche con la privazione degli abbracci, delle strette di mano, dei sorrisi senza mascherina durati per mesi e mesi…

Eppure – adesso che possiamo sorridere a pieno viso e comunicare con tutto il nostro corpo – ci scopriamo quasi incapaci di tornare a farlo.

Quante persone mi hanno confidato in confessionale la loro fatica a tornare a celebrare in chiesa assieme a tutti, perché la presenza degli altri ci dà quasi fastidio…

Quanti sentono l’attrazione fatale di quella comfort zone che è la tranquillità della cerchia ristretta della propria casa (e – a volte – il fastidio pure di quella, tanto che si preferisce la solitudine con se stessi)?

Quanto (anche da prima della pandemia) facciamo fatica ad entrare in contatto col corpo degli altri, soprattutto di quelli che ci creano repulsione, specialmente i poveri?

Offrire il proprio corpo ai poveri

Appena preso un corpo, il nostro Dio lo ha messo in mano agli ultimi della terra: i pastori, gente rozza e puzzolente.

Non ha avuto paura di “sporcarsi”, di contaminarsi con la nostra umanità, ma l’ha assunta fino in fondo. Da buon pastore (cfr Gv 10,11-18) ha iniziato subito a «puzzare delle Sue pecore» (come Papa Francesco raccomanda sempre ai pastori della Chiesa).

Avere un corpo e non donarlo agli altri (specialmente ai poveri) è perfettamente inutile, come ci ricorda san Paolo nel solenne Inno alla carità:

se anche… consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe (cfr 1Cor 13).

Natale è pace, ma soprattutto carità

La Colletta che ho citato all’inizio continua dicendo

insegnaci ad amare anche i nostri nemici
sull’esempio di lui,
che morendo pregò per i suoi persecutori.

Ecco perché all’inizio della celebrazione eucaristica oggi ho usato come saluto:

La pace, la carità e la fede da parte di Dio Padre e del Signore nostro Gesù Cristo siano con tutti voi.

Perché dono di questo Natale non è solo la pace, ma anche e soprattutto la carità, che si rende vera e visibile solo quando ci si dona con tutto se stessi, facendo vicino il proprio corpo a quello dei fratelli.

Per questo anche ieri – come da quarant’anni – la comunità di Sant’Egidio a Roma ha fatto sedere a tavola per il pranzo di Natale, dentro la Basilica di Santa Maria in Trastevere, più di trecento poveri, senza fissa dimora, migranti, anziani soli e famiglie in difficoltà.

Il martirio quotidiano

Stefano era nel numero dei primi sette diaconi, persone che la Chiesa primitiva scelse proprio per il servizio delle mense dei poveri (cfr At 6,1-6), e tutta la sua vita è stata carità e dono di sé, non solo il gesto estremo del martirio.

Così è stato per tutti i martiri della Chiesa, dalle origini ai giorni nostri: il martirio – la fine violenta della propria vita donata come testimonianza della propria fede in Cristo – è stato solo la “ciliegina sulla torta” di un’intera esistenza donata.

Così deve essere per noi: se anche non saremo chiamati al martirio di sangue (ce lo auguriamo), siamo però chiamati a fare di noi stessi, del nostro corpo, un dono totale a Dio, specialmente nel dono di carità ai poveri, giorno per giorno, goccia dopo goccia.

“Dare la vita” non significa solo morire eroicamente, ma spendere tutta la propria esistenza per la carità di Cristo.

Allarme rosso!

Ma se sentiamo il fastidio anche solo a tenerci per mano in famiglia mentre si prega (sempre che si preghi ancora assieme), se ci dà fastidio il vicino di banco che chiacchiera o è stonato, se preferiamo vivere la nostra fede come dei puri “spiritelli”, fatti di visioni mistiche e preghierine dette solo a mente, beh… si accende una grossa spia di emergenza.

Una sirena deve risuonare a tutto volume per richiamarci e ammonirci che non stiamo testimoniando proprio un bel niente, che il nostro corpo è inutile, e che stiamo perfino rendendo vana l’Incarnazione di Cristo!

Come possiamo dirci “Corpo mistico di Cristo” se il nostro essere cristiani si riduce a tanti bei discorsi, proclami, bla bla bla, e non si rende visibile, toccabile, “mangiabile” da chi anela ad incontrare Dio in carne ed ossa?

Sarà Natale solo se ci daremo in pasto agli affamati di questo mondo, facendo del nostro corpo un dono totale, proprio come Cristo, che – fin dall’inizio – si è fatto nostro pane facendosi deporre in una mangiatoia.