Pregare trasforma. 2ª Domenica di Quaresima (C)
Se vogliamo trasfigurarci come e con Gesù dobbiamo pregare con Lui e come Lui, per entrare in comunione col Padre, e tornare ai fratelli luminosi della Sua Luce
Letture: Gen 15,5-12.17-18; Sal 26 (27); Fil 3,17 – 4,1; Lc 9,28-36
Come ogni anno, la seconda domenica di Quaresima ci fa vivere l’esperienza della Trasfigurazione: una sorta di “finestra” sul futuro di Gesù (la Pasqua) e sul nostro futuro, su ciò che saremo nella gloria.
Ne avevano bisogno i discepoli, che qualche giorno prima si erano sentiti annunciare l’imminente destino di passione e morte del loro Maestro ed erano stati invitati a seguirlo sulla strada della Croce (cfr Lc 9,22-23).
Ne abbiamo bisogno noi, che – dopo qualche passo in questo cammino di Quaresima – ci sentiamo già stanchi e sfiduciati, angosciati per le terribili notizie che arrivano dal fronte di guerra in Ucraina e dagli strascichi di due anni di pandemia.
Il pallino di Luca
Come abbiamo già notato diverse volte, ognuno dei tre evangelisti sinottici ama sottolineare sfumature diverse dello stesso fatto narrato, e anche questa pagina di vangelo non fa eccezione.
Mentre nei vangeli di Marco e Matteo Gesù prende Pietro, Giacomo e Giovanni e li porta su un monte alto, per stare in disparte (cfr Mt 17,1), loro soli (cfr Mc 9,2), Luca, invece, sottolinea che Gesù
salì sul monte a pregare.
La preghiera di Gesù è uno dei “pallini”, delle fissazioni di Luca; lo abbiamo già notato nel racconto del battesimo al Giordano: mentre Matteo si sofferma sul dialogo tra Gesù e il Battista (cfr Mt 3,13-15) e Marco “taglia corto” (cfr Mc 1,9), Luca sottolinea che Gesù – dopo essere stato battezzato – era intento a pregare (cfr Lc 3,21).
Sono molteplici le occasioni in cui Gesù si ritira da solo a pregare:
- quando sta diventando così famoso che le folle lo “inseguono” (cfr Lc 5,15-16);
- la notte precedente la scelta e la chiamata dei Dodici (cfr Lc 6,12-13);
- poco prima di interrogare i discepoli riguardo la Sua identità (cfr Lc 9,18);
- prima di insegnare il Padre nostro (cfr Lc 11,1: è proprio il Suo stare in preghiera a suscitare il desiderio e la domanda dei discepoli di imparare a pregare);
- per la fede e la conversione di Pietro (cfr Lc 22,32).
Gesù prega, in continuazione, e raccomanda a tutti di pregare sempre, senza stancarsi mai (cfr Lc 18,1).
Perché pregare?
Perché è così importante la preghiera?
Perché pregare è l’unico modo per non restare soli nel momento della prova: è farsi prendere per mano da Dio.
Lo sappiamo bene quanto sia terribile restare soli, tanto che ogni volta che preghiamo il Padre nostro terminiamo chiedendo a Dio di non abbandonarci alla tentazione, ma poi – immancabilmente – passiamo la vita a voler fare di testa nostra, come ricordavamo domenica scorsa.
Per questo Gesù ci raccomanda di pregare.
La preghiera è il potente legame che ci unisce a doppio filo con Dio, senza il cui aiuto siamo perduti, in preda alle tentazioni:
«Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo» (Lc 21,36).
«Pregate, per non entrare in tentazione» (cfr Lc 22,40.46).
La preghiera trasforma
Sono solo Marco e Matteo a parlare di Trasfigurazione (metamorfosi, in greco); Luca invece, annota che
Mentre [Gesù] pregava, il suo volto cambiò d’aspetto.
Non è che il nostro evangelista voglia sminuire la portata teologica del momento rispetto agli altri (anche perché pure lui – come gli altri due – annota che le vesti di Gesù divennero inspiegabilmente bianche e sfolgoranti): solamente vuole sottolineare che la “trasformazione” di Gesù è originata proprio dalla preghiera.
È il suo pregare a trasfigurarlo, a fare in modo che il suo volto – letteralmente – divenga un altro.
Questa annotazione solo lucana sul cambiamento d’aspetto rimanda alle apparizioni del Risorto, quando – appunto – ci viene detto che Gesù è profondamente mutato, tanto che occorrono occhi nuovi per riconoscerlo (cfr Lc 24,15-16).
Se – come dicevo all’inizio – la Trasfigurazione anticipa la gloria di Gesù Risorto e rimanda al destino che attende ciascuno di noi, è anche vero e innegabile che ogni uomo che entra in intimità profonda con Dio nella preghiera si trasfigura: quante volte ho visto coi miei occhi persone così assorte nella preghiera di contemplazione diventare letteralmente radiose in volto!
Pregare trasforma, come dice il Salmo:
Guardate a lui e sarete raggianti (cfr Sal 34,6).
Pregare fa dormire?
C’è un particolare (anche questo annotato solo da Luca) che sembra accomunare il racconto della Trasfigurazione con l’agonia nel Getsèmani: il sonno di Pietro, Giacomo e Giovanni (cfr Lc 22,39-46).
Gesù prega… e loro dormono! Oh bella! È forse la difficoltà di pregare che fa addormentare?
Ma – al di là delle battute (e del prendere questi tre come giustificazione delle nostre fatiche nel pregare) – i due brani sono profondamente diversi: mentre nell’orto degli ulivi Pietro, Giacomo e Giovanni dormivano per la tristezza, qui – invece – sono appesantiti dal sonno.
Inoltre, la traduzione letterale dal greco non dice «quando si svegliarono» (come è nel testo che abbiamo letto), ma «essendosi tenuti svegli»: quindi non si sono addormentati. È la stessa dinamica che abbiamo ascoltato nella prima lettura riguardo ad Abramo:
Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono.
Abbandonarsi tra le braccia di Dio
Stare alla presenza del mistero immenso di Dio ci fa “perdere i sensi”, ed entrare in quello stato di “incoscienza” che è perdita di auto-controllo: è la situazione nella quale non disponiamo più di noi stessi e non siamo in grado di auto-determinarci.
Questo torpore assomiglia molto a quello che Dio fece scendere su Adamo per estrarre Eva dal suo fianco (cfr Gen 2,21).
“Addormentarsi” durante la preghiera non è necessariamente un male, se questo è lo stadio finale del nostro consegnarci e abbandonarci totalmente nelle mani di Dio: è qualcosa che ci fa sperimentare terrore (come Abramo) e – allo stesso tempo – confusa meraviglia, tanto da straparlare e non sapere più cosa diciamo (come Pietro).
La preghiera è anzitutto ascolto
Anche qui – come nel battesimo al Giordano – il Padre rivela che Gesù è Suo Figlio, ma stavolta la rivelazione è rivolta ai discepoli, ed è aggiunto un comando: «ascoltatelo!»
Quante volte le nostre preghiere non sono altro che una serie di invocazioni a Dio, con la pretesa di essere ascoltati, e subito?
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Così abbiamo pregato anche oggi col Salmo Responsoriale; questa cosa è normale: noi siamo nulla e non abbiamo niente, invece Dio è tutto e ha tutto.
Ma come possiamo costruire un dialogo di intimità e confidenza con Lui se parliamo sempre e solo noi?
Dio ci ascolta sempre, perché è un Padre buono che desidera dare ai Suoi figli tutto ciò di cui hanno bisogno: ce lo assicura Gesù (cfr Lc 11,9-13); ma se vogliamo che la nostra preghiera diventi sincera, occorre che impariamo ad ascoltare anche noi.
La preghiera di Gesù era fatta soprattutto di ascolto, secondo il “Credo” del pio israelita: «Ascolta Israele» (cfr Dt 6).
Così deve essere anche per noi, altrimenti – se non Lo ascoltiamo – come possiamo dirgli ogni giorno «sia fatta la tua volontà»? Come potremmo conoscere i Suoi pensieri, i Suoi desideri, senza mai averlo ascoltato?
Prendiamoci ogni tanto dei momenti e degli spazi adeguati di silenzio e ascolto, almeno durante il tempo di Quaresima!
Pregare non è staccarsi dal mondo
Preso della meraviglia e dallo stupore, Pietro avrebbe voluto fermare il tempo:
«Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa».
Grazie al cielo, ogni tanto capitano anche a noi dei momenti in cui non preghiamo di corsa, con la fretta di tornare ai nostri traffici quotidiani, ma ci prendiamo il tempo che serve e facciamo esperienza dell’intimità col Signore.
In quei rari momenti ci piacerebbe prolungare per sempre quel senso di serenità e pace con Dio, ma la preghiera non è fatta per questo.
Pregare non è isolarsi dal mondo, ma – anzi – creare un ponte tra cielo e terra, farsi mediatori tra Dio e gli uomini, proprio come Gesù (cfr 1Tm 2,5).
La preghiera è un entrare nel cuore di Dio per poi uscire trasfigurati, ricolmi della Sua luce e pieni del Suo Amore, pronti a trasmetterlo agli uomini, come Mosè quando scese dal Sinai e ogni volta che usciva dalla Tenda del Convegno (cfr Es 34,28-35).
Entrare per uscire
Non è un caso che Luca (e solo lui) ci riferisca di che cosa abbia parlato Gesù con Mosè ed Elia:
parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Quindi anche Gesù ha il suo esodo, la sua uscita. E anche noi.
L’esodo di Cristo è stata la Sua decisione di incarnarsi, di lasciare la pace della beata condizione divina per mischiarsi alla nostra pochezza e contraddittorietà:
Cristo Gesù:
pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce (cfr Fil 2,5-11).
Esodo è il Suo cammino in mezzo agli uomini, fatto di condivisione e di annuncio, carico di qualche successo e di molte delusioni.
Esodo – per noi – è questo cammino di Quaresima, che ci mette davanti ai nostri insuccessi, alle nostre fragilità, alla nostra fatica di stare vicino ai fratelli, in particolare quelli che soffrono.
Se abbiamo la grazia di entrare veramente in intimità con Dio, e lo ascoltiamo per davvero, Egli ci fa capire che è necessario uscire, tornare in mezzo ai fratelli perché anche loro possano farne esperienza.
Il nostro posto è là in mezzo a loro
Che la preghiera che stiamo intensificando in questi giorni per la pace ci faccia uscire di corsa incontro a coloro che invocano Dio e non lo trovano, così immersi come sono nell’angoscia, nella tristezza e nel terrore della follia umana.
La preghiera deve trasformarci, ma non solo in volto: soprattutto nel cuore! Pregare non serve per cambiare il cuore di Dio (che è già infinitamente buono, da sempre), ma il nostro.
Il nostro posto non è sul monte (o almeno, non lo è per ora), ma in mezzo ai nostri fratelli, come diceva un vecchio canto di Claudio Chieffo: https://youtu.be/4jR_Zct8Wsw