Prendere o accogliere? 32ª Domenica del Tempo Ordinario (C)

Accogliere

Credere nella risurrezione è possibile solo se impariamo fin da ora ad accogliere la vita come un dono di Dio e a non considerarla come un nostro possedimento.

Omelia per domenica 6 novembre 2022

Letture: 2Mac 7,1-2.9-14; Sal 16 (17); 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38

Il verbo “prendere” torna ben sei volte nel vangelo di oggi: si riferisce al contratto matrimoniale secondo la società religiosa ebraica, riassunto nella formula «prender moglie (marito)».

Il concetto di fondo – trattandosi di una società maschilista e patriarcale – era piuttosto rude: la moglie veniva pressoché “acquistata” come una sorta di proprietà, e tale era ritenuta. Nei testi dell’Antico Testamento il marito viene chiamato ba’al di una donna, ovvero: il suo “padrone”, termine usato anche per indicare la proprietà di una casa o di un campo (cfr Es 20,17).

È inutile che ci arrabbiamo…

È una cosa che oggi ci manda su tutte le furie anche solo ad immaginarla, e che non sopportiamo quando la vediamo tuttora presente in altri modelli socioculturali (come quello islamico più stretto), ma la sostanza non era poi molto diversa anche da noi, fino a non molti anni fa.

Basti pensare che il Rito del Matrimonio cristiano è stato rivisto solo nel 2004, e – se oggi i due sposi manifestano il loro consenso con la formula «Io … accolgo te come mia/o sposa/o», prima la formula era «Io … prendo te come mia/o sposa/o».

…perché siamo ancora fermi lì

Anche se viviamo ormai una rivisitazione romantica dell’amore e predichiamo l’amore libero (e quindi in Italia non avvengono più matrimoni combinati e quasi più nessun uomo va a chiedere la mano della futura moglie al padre di lei), i rapporti tra le persone (soprattutto quelli di coppia) sono ancora molto segnati da questo senso atavico di possesso.

Semmai, l’emancipazione femminile ha caricato di possessività anche la controparte: ognuno dei due (e non più solo il maschio) si sente in diritto di rivendicare con forza «tu sei mio/a».

Non so quindi quanto e se ci abbiamo davvero guadagnato…

Solo l’Amore di Dio libera

Io rimango sempre il sognatore che crede profondamente che l’Amore vero, con la “A” maiuscola è quello che non solo lascia liberi, ma rende liberi, come spesso sottolineo nelle mie riflessioni citando una famosa canzone di Sting:

If you love somebody set them free («se ami qualcuno rendilo libero»).

Ma di questo Amore è capace solo Dio.

L’Amore di Dio non è una catena, non costringe: non ha nulla a che fare con quel “sentimento” malato che chiamiamo “amore” ma che purtroppo sparge notizie di cronaca nera tutti i giorni nel nostri TG (femminicidi originati dal non saper accettare una separazione o la non corrispondenza dell’amore da parte del partner).

Che c’entra con la risurrezione?

Vi chiederete cosa c’entra questo discorso con il tema della risurrezione, che sta al centro del dibattito tra Gesù e i Sadducei che ascoltiamo nel vangelo di questa domenica.

C’entra eccome! Proprio a partire dalle parole di Gesù capiamo dove sta il punto di separazione tra il modo di Amare di Dio e il nostro modo di “amare”:

«I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito…»

La risurrezione, la vita nuova in Dio, sovverte tutte le regole della nostra esistenza, anche quelle che pensiamo tengano in piedi il nostro quotidiano.

Come dicevo già nella riflessione di tre anni fa, Gesù non sta affatto dicendo che una volta entrati nella Vita Eterna non ci riconosceremo più tra mariti, mogli, genitori, figli etc… ma che il rapporto sarà totalmente nuovo.

Imparare ad accogliere

In questo mondo siamo abituati a catalogare tutto come “mio” o “tuo”, a ragionare sempre e solo con le regole del possedere, del prendere, dell’arraffare… Dio ci chiede di cominciare a guardare le cose da un’altra prospettiva: quella del dono da accogliere.

La vita non è “cosa nostra”: ci è stata donata da Dio (sia la nostra, sia – soprattutto – quella delle persone care).

Solo entrando in questa prospettiva potremo cominciare a non vedere più la morte (quella dei nostri cari e la nostra) come una tragedia ma come un momentaneo distacco necessario per una vera trasformazione.

Dio ci ha donato tutto quello che ha creato perché noi lo amministriamo con diligenza e sapienza su questa terra, per poi farcene dono definitivo in cielo.

La dinamica del nostro essere creature elevate all’uguaglianza con Dio e messe dal Signore a capo di tutta la Creazione (cfr Sal 8) va ricompresa nell’ottica della parabola dei talenti (cfr Mt 25,14-30): Dio non ci consegna le Sue cose per poi riprendersele, ma ci affida tutti i Suoi averi fidandosi del nostro essere buoni amministratori, e quando torneremo a presentare il frutto del nostro impegno ce ne farà diventare davvero e per sempre “padroni”, aggiungendo anche tutto il resto dei suoi Beni:

«Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25,21.23).

Il matrimonio come finestra sull’Eternità

Ecco allora che la domanda capziosa dei Sadducei permette a Gesù di illuminare il matrimonio e l’amore umano con la luce di Dio; il rapporto tra uomo e donna non sono più un contratto giuridico che cerca di normare un rapporto dispari di forze, ma il luogo dove Dio spalanca la finestra sull’eternità:

«quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio»

Non più prendere, acquistare, possedere… ma accogliere: ricevere in dono.

Chi prende invece di accogliere è come chi cerca di stringere forte nel pugno la sabbia della spiaggia: più stringe e più sfugge dalla presa, e alla fine rimane con un pugno di mosche: è l’esperienza del fallimento e della morte, che caratterizza ogni nostro atto di egoismo e violenza (e – purtroppo – anche tanti dei nostri rapporti che scambiamo per “amore”).

La nuova formula liturgica «Io accolgo te…» riporta l’amore degli sposi nell’orizzonte biblico originario, in cui l’uomo e la donna sono presentati l’una all’altro come un dono di Dio, un dono da accogliere (cfr Gen 2,18-24):

il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.

Appartenenza reciproca

Di fatto, appartenere a qualcuno è qualcosa di odioso se tale appartenenza è ottenuta con la forza (il potere, il denaro, la violenza), ma – al contrario – è qualcosa di dolcissimo quando è frutto del dono spontaneo di sé: è stupendo poter dire a qualcuno «io ti appartengo», in totale libertà e sincerità.

Dio si è rivelato a noi così, come «il nostro Dio», Colui che ci appartiene perché si è donato liberamente e totalmente a noi; e desidera che anche noi gli apparteniamo (non per forza, ma per naturale risposta al Suo donarsi):

«porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (cfr Ger 31,33).

È la relazione intima e amorosa che sottintende Gesù citando il brano dell’Esodo per controbattere ai Sadducei:

«Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe»

Iniziare a risorgere

Dio si è legato in modo indissolubile a chi lo ha saputo accogliere come Dio dell’Amore e della fedeltà all’alleanza, come Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè e tanti altri.

L’Amore vero (quello Eterno, che scaturisce da Dio) si fonda su una appartenenza che è frutto del dono totale di sé.

Credere nella risurrezione è possibile solo se impariamo fin da ora ad accogliere la vita e gli altri come un dono di Dio e a non considerarli come un nostro possedimento.

Per iniziare fin da ora a vivere da risorti, ovvero ad essere «giudicati degni della vita futura e della risurrezione dei morti», dobbiamo entrare in questa nuova prospettiva dell’accogliere anziché prendere, dell’appartenere anziché possedere:

«…quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente» (cfr 1Cor 7,29-31).