Quanto sai attendere? 32ª Domenica del Tempo Ordinario (A)

attendere, con le lampade piene d'olio

Il tempo che siamo disposti a “sprecare” nell’attendere è proporzionale al valore che diamo alla persona che desideriamo incontrare. Chi stiamo aspettando?

Letture: Sap 6,12-16; Sal 62 (63); 1Ts 4,13-18; Mt 25,1-13

Al tempo di Gesù – in una società maschilista e patriarcale – era lo sposo a farsi attendere nei matrimoni (non la sposa, come da noi); perché doveva contrattare il valore della dote e tanti altri dettagli con il padre della futura moglie.

Più la contrattazione si protraeva e più significava che era «un buon affare», che ne valeva davvero la pena.

Ma quanto ci mette?

I personaggi della scena descritta da Gesù sono uno sposo che tarda – troppo – e un gruppo di damigelle che si addormentano, proprio per l’inverosimile protrarsi dell’attesa.

Immedesimiamoci in queste ragazze e cerchiamo di immaginare i loro discorsi: quanto avranno resistito prima di uscire con esclamazioni spazientite?

«Ma che fine ha fatto? Ma quanto ci mette? Un po’ si può “spettegolare”, parlare del più e del meno, ma… quando è troppo è troppo, eh?!»

Alla fine la noia, la stanchezza, lo sfinimento, il sonno… non risparmia nessuna di loro: apparentemente sono tutte uguali. È al risveglio che diviene evidente la differenza annunciata fin dall’inizio:

«Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi».

All’improvviso tutta l’attenzione (e la tensione) è puntata sulla scorta di olio, che diviene essenziale.

Preparativi

Il racconto ci invita a fare una sorta di flashback, ad immaginare la scena dei preparativi delle ragazze: frettolose e distratte le cinque sciocche; pignole e attente le cinque sagge.

A cosa è dovuta questa differenza? Sarà stata solo una questione di carattere? Di quoziente intellettivo?

Non credo. Penso più a un errore di calcolo, a una cosciente valutazione diversa rispetto a quanto c’era in gioco.

Le sciocche avranno pensato: «non ci metterà molto lo sposo ad accordarsi col futuro suocero». Ovvero: «è uno dei tanti matrimoni “standard”, mica quello di un principe… e quindi non è il caso di metterci chissà quale impegno…»

Un ragionamento di questo tipo fa venire in mente un’altra festa di nozze «presa sottogamba»: quella della parabola ascoltata qualche domenica fa, che terminava con l’imbarazzante epilogo del tale scoperto ad essere entrato nella sala delle nozze senza l’abito nuziale.

La domanda è la stessa, sia per quel tale che per le cinque vergini stolte:

  • con che spirito sei venuto alla festa? Ci sei o ci fai?

Stanchi di attendere

Matteo – riportando questa parabola – si rivolge a una Comunità che ormai si stava assopendo, stanca di attendere la parusia: il ritorno glorioso di Cristo.

Nei primi anni, le comunità apostoliche lo attendevano da un momento all’altro (ne è testimonianza anche il brano della seconda lettura di oggi), ma col passare del tempo, col venir meno dei primi testimoni, l’animo non era più quello del «Maràna tha» («vieni, Signore»: cfr 1Cor 16,22; Ap 22,20).

Si rischiava ormai di volgere lo sguardo sempre più (e solamente) alle cose della terra. Lo testimonia anche la disperazione di Paolo nel brano che abbiamo ascoltato l’altro ieri:

«molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo… non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (cfr Fil 3,18-20).

Se quel richiamo era valido già allora, oggi è quanto mai attuale. Lo sto ripetendo diverse volte in questi giorni dell’Ottavario dei Defunti, invitando a riflettere sulla sorte che ci attende: quella patria celeste che il Padre ha preparato per noi fin dall’eternità, e alla quale i cristiani – purtroppo – sembrano pensare sempre meno.

Capita a tutti

«si assopirono tutte e si addormentarono».

Assopirsi, addormentarsi, «perdere lo smalto iniziale» è esperienza comune a tutti: il momento della fatica, dello scoraggiamento, dei dubbi di fede non risparmia nessuno (neanche i santi): nessuno è esente.

Chi è saggio lo sa: lo sanno le cinque ragazze previdenti. Lo sa anche il nostro Maestro, e proprio per questo ci mette in guardia:

«Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».

Proprio così: chi di noi si sarebbe aspettato questa tremenda pandemia? Chi avrebbe mai pensato di dover ribaltare la propria vita da un momento all’altro? E di vederla così in pericolo e traballante da non essere più sicuri di niente?

Non impariamo mai

Ci ha insegnato qualcosa questa brutta esperienza, così vivida nel ricordarci la precarietà della nostra esistenza terrena?

Non lo so. Non credo. Senz’altro non a livello umano.

Molti – a marzo – ripetevano che da questa tempesta saremmo usciti cambiati e migliori, ma già a maggio esprimevo i miei dubbi, e li ho confermati sempre più nei mesi a seguire, soprattutto in questa seconda ondata, dove esce fuori il peggio della gente, nell’isteria, nella non sopportazione, nella violenza con la quale si reagisce al fastidio di un nuovo lockdown.

Siamo troppo «terra terra»

Adesso nessuno è più disposto a dire #iorestoacasa, a fare sacrifici, ad imporsi delle regole.

Non c’è più lo spirito di coesione che ci faceva sentire «tutti sulla stessa barca» nello smarrimento della prima batosta. Non c’è più l’attesa e la speranza comune di uscirne assieme, con l’impegno di ciascuno.

Adesso ognuno punta solo a conservare i propri diritti: si è perso di vista il bene comune e si cerca solo il proprio, egoisticamente.

Questi atteggiamenti non mi preoccupano solo a livello di coscienza civile (e per le conseguenze sanitarie che ne possono derivare), ma mi fanno riflettere su una malattia più profonda dell’essere umano, che in questo tragico frangente emerge in tutta la sua chiarezza: l’uomo è troppo attaccato alla terra e a se stesso!

Scuotiamoci dal torpore

Ecco la chiave di lettura e lo scopo della parabola: scuoterci dal nostro torpore, come il grido a mezzanotte che annuncia l’ormai inaspettato arrivo dello sposo.

Un po’ come quando un incubo ci sveglia di soprassalto facendoci sentire l’ansia e il terrore di esserci presentati a un esame o un appuntamento senza aver studiato o preparato l’occorrente.

Gesù ci sta dicendo: «questo avvertimento è solo un brutto sogno, per ora… ma è anche un sogno premonitore, se non farete ciò che vi permetterà di fare in modo che non si avveri».

Cosa occorre fare perché l’incubo non diventi realtà?

Prepararsi, ovviamente. E predisporre tutto ciò che ci occorre per essere pronti, perché dopo sarà tardi, come per le cinque ragazze sbadate rimaste senza olio in piena notte.

Dobbiamo renderci conto che la nostra vita è l’attesa di un incontro, e non di un incontro qualsiasi, uno dei tanti, ma l’Incontro della nostra vita, quello col Risorto!

E sarà un incontro personale, «a tu per tu», nel quale nessuno ci potrà sostituire, o dare le sue cose, la sua fede (avete mai provato a fare un esame con sotto gli occhi gli appunti illeggibili di un vostro compagno, raffazzonati all’ultimo momento avendo dimenticato a casa i vostri?)

L’olio della speranza

Dicevo poco sopra che tutti si addormentano, tutti sperimentano momenti difficili e di crisi nella propria vita… perciò quel «Vegliate!» di Gesù non è un improbabile invito a stare sempre svegli, perché non ne saremmo capaci.

È – invece – la raccomandazione a farci trovare pronti per il giorno in cui saremo svegliati improvvisamente dalla notizia che lo Sposo è giunto.

E l’unico modo per farci trovare pronti è prepararsi prima, per tempo: preparare con minuzia le valige, giorni e giorni prima dell’effettiva partenza per il lungo viaggio.

L’«olio in piccoli vasi» delle cinque ragazze sagge è il simbolo di qualcosa di ardentemente desiderato da tanto tempo, e della disponibilità ad attenderlo con pazienza, sicuri che quell’attesa – seppur lunga e faticosa – è sensata, e ne varrà la pena!

La speranza cristiana – fatta di preghiera e caritatevole operosità – è l’olio che mantiene viva la fiducia dell’attesa credente.

Per cosa vale la pena attendere?

Quante sono le cose (per lo più futili) nella nostra vita per le quali facciamo preparativi certosini e ci mettiamo in attesa con ore ed ore di anticipo?

C’è gente che sta in coda fuori dai palazzetti e dagli stadi fin dall’alba per vedere l’ennesimo concerto di Vasco…

Ci sono ragazzi che ogni sei mesi si mettono in fila fuori da un centro commerciale coi sacchi a pelo e le tende, giorni e giorni prima, ad ogni lancio dell’ultimo iPhone…

  • Noi cristiani per cosa (per Chi) siamo così trepidanti?
  • E quanto siamo disposti ad attendere?

È un tema che ho già sviluppato l’anno scorso, commentando la parabola lucana dei servi che vegliano: solo chi ama è disposto ad attendere paziente, anche quando l’attesa si fa snervante e sembra non finire mai.

Il tempo che si è disposti a “sprecare” nell’attesa è proporzionale al valore che diamo alla persona (o all’oggetto) che desideriamo.

Per farci scuotere dalla Parola…

Facciamoci qualche domanda, soprattutto in questi giorni di riflessione sul senso della vita e della morte:

  • Ci ricordiamo di essere in attesa di un incontro?
  • A che tipo di appuntamento ci stiamo preparando? Una festa di nozze o un funerale?
  • Come e quanto ci stiamo preparando?
  • Siamo disposti ad attendere pazientemente, anche se l’attesa sembra dilungarsi troppo?