Siamo “Cristo-dipendenti”. 5ª Domenica di Pasqua (B)

Non portiamo frutto se pretendiamo di essere indipendenti da Dio

Vogliamo essere liberi, indipendenti, ma non ci rendiamo conto che l’unico modo per esserlo è dipendere da Cristo e rimanere attaccati a Lui

Letture: At 9,26-31; Sal 22; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

Ancora una volta Gesù ci propone un’allegoria tratta dalla vita di tutti i giorni: come domenica scorsa abbiamo contemplato il lavoro del pastore, oggi ci invita a considerare quello dell’agricoltore nella vigna.

Ma soprattutto – ancora una volta – inizia il suo discorso con un pretenzioso «Io sono»: un’espressione molto forte, inequivocabile, che richiama esplicitamente il modo in cui Dio stesso si era presentato a Mosè che gli chiedeva il Suo nome (cfr Es 3,13-14).

Chi è Lui? Chi siamo noi?

Questo modo di parlare aveva fatto infuriare più volte dottori della Legge e scribi, che lo accusavano di bestemmiare (cfr Gv 10,32-33).

Apparentemente, a noi questa cosa non fa nessun problema, perché – da buoni cristiani – ogni domenica professiamo:

«Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio,
nato dal Padre prima di tutti i secoli:
Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero,
generato, non creato, della stessa sostanza del Padre…»

Ma – prima di passare oltre – vale la pena interrogarci seriamente se queste affermazioni della nostra Professione di Fede siano dette con convinzione oppure siano solo un ritornello stantìo, ripetuto “a macchinetta”.

Davvero Gesù è Dio per noi?

Perché se sì, se lo è veramente, allora la nostra vita cambia del tutto!

Io credo che il 99% dei cristiani dicano solo a parole che Gesù è «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (cfr Mt 16,16)… È molto più facile (e lo si sente dire di frequente) considerarlo solo “un grande uomo” del passato, un esempio di vita…

Se si considera Gesù semplicemente come uno dei tanti personaggi famosi della storia (alla stregua di Gandhi o Martin Luther King), si è liberi di prenderlo come riferimento oppure no… Se invece è Dio, allora siamo “obbligati” in tutto e per tutto nei confronti della Sua Parola.

A seconda di chi crediamo che sia Lui, deriva una diversa comprensione di chi siamo noi: se Lui è solo un uomo, noi possiamo seguire chi più ci piace; ma se Lui è Dio, non possiamo far altro che sentirci totalmente “dipendenti” da Lui, non possiamo farne a meno!

Dipendenti da Gesù Cristo

Domenica scorsa mettevo in guardia sul fatto che se non è Cristo il nostro pastore altri prenderanno quel ruolo… oggi vi invito a fare un esame ulteriore:

  • chi è la nostra “vite”?
  • A quale “tronco” siamo attaccati?
  • Da dove sgorga la “linfa vitale” che ci tiene in vita?
  • Da chi “dipendiamo”?

Questo è il senso dell’immagine allegorica usata da Gesù: un ramo esiste e vive solo se è attaccato al tronco principale (che attinge linfa dal suolo e gliela trasmette); non c’è altra possibilità in natura.

È così evidente che – entrando più in profondità nella similitudine – Gesù pronuncia una frase dirompente (per quanto logica):

«senza di me non potete far nulla».

È una pretesa grande quella di proporsi come assolutamente necessario per la nostra vita, ma è una provocazione di cui abbiamo bisogno per purificare la nostra fede.

D’altronde Gesù era stato annunciato fin da subito come «segno di contraddizione… per la caduta e la risurrezione di molti» (cfr Lc 2,34); davanti a Cristo non si può rimanere indifferenti, perché:

«chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» (Mt 12,30).

O dipendiamo da Lui o non possiamo dirci cristiani.

Dichiarazione d’indipendenza

L’uomo contemporaneo fa fatica ad accettare questo aut aut: al giorno d’oggi – infatti – il traguardo più importante per dimostrarsi “adulto” è rendersi indipendente, poter dire «mi so arrangiare da solo, non ho bisogno di nessuno».

Ma questa pretesa di autonomia ed emancipazione è una grande illusione, un inganno, forse il più grande abbaglio che l’uomo possa prendere.

Chiediamoci sinceramente: potremmo esistere senza alcun legame, senza dipendere da nessuno?

Molti si immaginano come dei moderni Robinson Crusoe, capaci di cavarsela anche su un’isola deserta… ma vorrei proprio vedere! Soprattutto noi “nativi digitali”, che non sappiamo fare più nemmeno 2+2 senza calcolatrice!

Ci si dimentica che siamo quel che siamo solo perché qualcun altro ci ha accuditi in tutto per anni: siamo l’unica specie del genere animale che ha bisogno di tempi biblici prima di essere “svezzata”.

Oltretutto, questi mesi pandemia (che ci hanno rinchiusi e isolati così spesso e a lungo) dovrebbero averci fatto sperimentare il bisogno che abbiamo degli altri, anche solo della relazione, prima ancora che del loro fondamentale apporto (lavorativo o professionale) alla crescita della società.

Proviamo a cambiare similitudine

Forse l’immagine della vite e dei tralci non ci “parla” abbastanza, perché non siamo così a contatto con la natura… e allora proviamo a sostituirla per un attimo con una similitudine tecnologica.

Pensate ai progressi e alle scoperte che l’uomo ha fatto nel campo della tecnica: ormai la nostra vita non può prescindere da elettrodomestici e aggeggi elettronici di ogni tipo, sempre più perfetti, sofisticati e “intelligenti”.

Eppure, che cosa succede quando un forte temporale fa mancare la corrente nelle nostre case?

Improvvisamente tutti quei meravigliosi gioielli elettronici diventano solo inutili ferraglie e ci sentiamo persi, impotenti. E magari – illusi da tutta la nostra tecnologia – non avevamo tenuto da parte nemmeno una candela o un fiammifero in caso di “ritorno alla preistoria”.

È quello che accade all’uomo quando crede di essere indipendente, quando pretende di essere un assoluto (ovvero “sciolto”, staccato da tutto e da tutti): da meraviglioso spettacolo della natura diventa nient’altro che un ammasso inutile e disordinato di cellule e sentimenti impazziti.

Se rendersi indipendenti è staccare la spina…

L’uomo reclama da secoli la sua indipendenza, ma – in realtà – si scopre dipendente da tutto: dall’opinione altrui, dal bisogno di apparire e affermarsi, dal denaro, fino ad arrivare alle dipendenze più gravi: le tossico-dipendenze (intese non solo come dipendenza da stupefacenti, ma da ogni cosa che ci danneggia profondamente nell’intimo).

Come Adamo, ogni uomo tenta disperatamente di “liberarsi”, di “staccarsi” da Dio e dagli altri, ma – facendo così – sperimenta tutta la sua povertà. È il senso del racconto del peccato originale (cfr Gen 3): la pretesa di poter fare a meno di Dio, di sostituirsi a Lui, decidendo in autonomia cosa è bene e cosa è male, porta all’esperienza della propria nullità:

«Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi» (Gen 3,7).

Credere di potersi finalmente “svincolare” da Dio è come pretendere che un apparecchio elettrico continui a funzionare una volta staccata la spina!

Il legame che ci fa liberi

Noi siamo quelli dell’era wireless: non sopportiamo i fili e tutte le cose che ci si attorcigliano attorno, che ci imbrigliano… ma non ci ricordiamo che anche le tecnologie “senza fili” ci servono proprio per mantenerci collegati con gli altri! Ce ne accorgiamo quando il telefonino “non prende” e andiamo nel panico, perché siamo “tagliati fuori dal mondo”.

Smettiamola allora di reclamare la nostra indipendenza, e piuttosto rimaniamo “dipendenti” dall’unico che ci può rendere liberi:

«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32).

Ripristinare i legami

Prendiamo coscienza degli effetti devastanti delle nostre “dichiarazioni d’indipendenza” e ripristiniamo i legami che abbiamo troncato.

Ricostruiamo i ponti che abbiamo abbattuto quando – sentendoci “bastanti a noi stessi” – abbiamo rifiutato il confronto sincero, oppure – per mancanza di umiltà nel chiedere e offrire aiuto – abbiamo tagliato fuori gli altri e ci siamo chiusi in noi stessi.

Ma soprattutto riannodiamo il legame con Cristo, che tante volte abbiamo cacciato fuori dalla nostra vita, pensando che fosse un ostacolo alla nostra libertà. Invece Lui non fa che ripeterci:

«non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47);

«io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

Rimanere

Perché questi legami si rinsaldino e siano durevoli non basta ricordarcene ogni tanto, ma occorre che diventino permanenti.

Come non si tiene in piedi un’amicizia vedendosi una volta ogni due-tre mesi per un aperitivo, così non si rimane cristiani accontentandosi di andare a Messa la domenica (e magari ogni cristiano ci andasse ogni domenica!).

Non possiamo accontentarci di “vivacchiare”: per vivere in pienezza e «portare frutto» occorre «rimanere» in Cristo (è un verbo che torna due volte nella seconda lettura e ben sei volte nel vangelo), ovvero vivere nella Sua amicizia, della Sua Parola, nella Sua grazia.

Questo è possibile solo se attingiamo continuamente questa “linfa” attraverso i Sacramenti, che rinnovano in noi il dono della vita divina ricevuto nel Battesimo:

«ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6).

Il mistero della potatura

C’è un altro passaggio che facciamo fatica a capire e accettare nell’allegoria della vite e dei tralci: quello della potatura.

Se Cristo ci promette una vita piena, perché sembra spesso fare il contrario, chiedendoci rinunce e sacrifici?

Essere cristiani in modo permanente richiede impegno, abnegazione, e spesso sofferenza… si sperimentano tante occasioni in cui anche la nostra vita “piange”, come fa la vite nel punto in cui il tralcio viene potato.

Rimane un mistero per noi, ma dobbiamo fidarci di Dio: come non andremmo mai a questionare con un vignaiolo che pota a più non posso quasi tutti i tralci per lasciare solo quelli più promettenti, così dobbiamo abbandonarci alle mani del nostro Padre Celeste, anche quando sembrano armate di cesoie affilate.

Come un sapiente vignaiolo, Dio sa individuare ciò che è da staccare perché inutile e dannoso alla nostra vita; Egli spesso “amputa” qualcosa alla nostra vita, ma lo fa solo per renderla più forte, seppur attraverso il sacrificio del taglio e della rinuncia.

Questo vale per la vita del singolo credente e anche per quella dell’intera Comunità cristiana: non è detto che togliendo il Parroco alla Parrocchia di Laxolo il Signore voglia farle del male… forse vuole solo aiutarla a maturare e camminare più saldamente con le proprie gambe, a rendere più responsabili e attivi i laici, così che si rendano più partecipi e affezionati alla propria Comunità…

È un mistero, ma occorre fidarsi di Dio, perché Lui sa sempre quello che fa, e lo fa per il nostro bene.

La prolunga

Ritornando all’esempio banale degli elettrodomestici, vi do un ultimo suggerimento.

Può capitare che qualcuno sia ormai così distante dalla “presa elettrica”, da quella fonte di vita che è Dio da non poter assolutamente rimettersi in moto da solo… È lì che la carità fraterna deve entrare in gioco.

Nessun uomo – e in particolare nessun cristiano – deve permettersi di dire «non è affar mio» riguardo ad un fratello che si è allontanato e “slegato” da Dio. Ogni membro della Comunità deve fungere invece da “prolunga” per dare ai lontani la possibilità concreta di poter nuovamente attingere la linfa vitale necessaria a rinvigorire la fede e il cammino.

Tanto nelle nostre famiglie quanto nella grande Famiglia che è la nostra Comunità cristiana, siamo chiamati ad essere sapienti “annodatori” di fili spezzati, restauratori di rapporti interrotti, tra di noi e con il buon Dio.

Per meditare in musica…

https://youtu.be/yvy-9GH-7ZU