Sorella malattia. 5ª Domenica del Tempo Ordinario (B)

La malattia come luogo della presenza di Dio

In Gesù il Regno di Dio si fa vicino non solo a parole ma anche nei gesti. In Lui anche la malattia diventa “luogo” della Sua presenza e della Sua misericordia.

Letture: Gb 7,1-4.6-7; Sal 146 (147); 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39

Il tema centrale che la Parola di Dio ci consegna in questa domenica è la malattia, guardata da diversi punti di vista: quello dell’ammalato, quello di Dio e quello del credente.

Leggiamo infatti nell’Orazione Colletta (quella che precede l’ascolto delle letture, e si chiama così proprio perché ha lo scopo di raccogliere tutti assieme i temi sui quali siamo invitati a metterci in ascolto):

O Padre, che con amorevole cura
ti accosti all’umanità sofferente
e la unisci alla Pasqua del tuo Figlio,
insegnaci a condividere con i fratelli il mistero del dolore,
per essere con loro partecipi della speranza del Vangelo.

Riassumendo:

  1. Dio si accosta amorevolmente alla sofferenza di ogni uomo;
  2. ci aiuta a leggerla attraverso la “lente” della Pasqua di Cristo;
  3. da Lui dobbiamo imparare a condividere la sofferenza dei nostri fratelli.

L’attenzione di Gesù per i malati

Circa un terzo del vangelo ci parla della cura di Gesù per gli ammalati.

Lo constatiamo anche nel brano ascoltato oggi (che ci descrive la “giornata-tipo” di Gesù come una sorta di intreccio tra insegnamento/predicazione, cura dei malati e preghiera):

gli portavano tutti i malati e gli indemoniati… Guarì molti che erano affetti da varie malattie.

È un aspetto tanto importante per il ministero di Gesù, che lo parteciperà anche ai suoi discepoli, fin da subito:

Convocò i Dodici e diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie. E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi (Lc 9,1-2).

Ed è un’attenzione non generica, rivolta a una “massa informe” di individui presi indistintamente: il vangelo ci narra spesso – con dovizia di particolari – le vicende personali e uniche degli infermi guariti da Gesù, per sottolineare il rapporto esclusivo che il Maestro creava tra sé e ciascun ammalato.

Per esempio il sordomuto «preso in disparte, lontano dalla folla» (cfr Mc 7,31-35). Ma anche la guarigione della suocera di Pietro raccontata nel brano di oggi, dove – con poche parole – Marco ci fa intravedere il profondo legame di affetto e compassione che Gesù stabiliva con ciascun ammalato:

Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano.

Il “vangelo pratico”

La cura di Gesù per gli ammalati non è semplicemente un’attività pratica accostata all’attività “teorica” del predicare: è essa stessa vangelo, annuncio di una novità assoluta.

Prima dell’avvento di Cristo, la concezione religiosa ebraica vedeva nella malattia qualcosa di strettamente connesso col peccato: una persona colpita da una malattia grave (o nata handicappata) era considerata “maledetta”, punita da Dio; il male fisico era un modo per espiare una colpa.

Ne troviamo prova chiara nella domanda che i discepoli pongono a Gesù di fronte al cieco nato:

«Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» (Gv 9,2).

Gesù è venuto a scalzare questa concezione atavica ed errata. Ai suoi discepoli risponde:

«Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (Gv 9,3).

E – accingendosi a guarirlo – realizza la profezia di Isaia (già citata domenica scorsa) che aveva letto solennemente nella sinagoga di Nazaret:

«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista»
(Lc 4,18; cfr Is 29,18; Is 35,5; Is 42,7).

Un annuncio che riguarda anche noi

Sono passati duemila anni di cristianesimo, eppure abbiamo bisogno pure noi di ripassare questo “vangelo pratico”: quante volte, nel momento in cui la sofferenza ci fa visita (perché ci ammaliamo o si ammala un nostro caro) alziamo la voce a Dio per chiedere «ma che male ho fatto?»

Siamo tuttora prigionieri di una concezione di giustizia retributiva, in cui Dio premia i buoni (con la salute e la fortuna) e punisce i cattivi (con le disgrazie e le malattie).

Io dico sempre che – se davvero Dio dovesse agire così – dovremmo essere tutti già bell’e morti stecchiti, altro che Diluvio universale, altro che terremoti, carestie, pestilenze… altro che Coronavirus!

La prima conversione che ci è richiesta è proprio quella del recuperare la vera immagine di Dio, quella che ci ha insegnato Gesù, con le parole, ma prima ancora con i suoi miracoli di guarigione: Dio è quel Padre che con amorevole cura si accosta all’umanità sofferente.

La malattia: un’inaspettata maestra

Fatta questa prima conversione, possiamo procedere con la seconda: vivere la malattia non più come una maledizione, ma come un’occasione di incontro con Dio e di crescita nella fede.

L’orazione iniziale diceva che Dio Padre unisce l’umanità sofferente alla Pasqua di Cristo, ovvero: attraverso la sofferenza patita da Cristo sulla croce, aiuta l’uomo a intravedere come il mistero profondo del dolore possa trovare posto nel disegno della Provvidenza Divina.

Matteo, riportando lo stesso episodio ascoltato oggi, aggiunge una rilettura cristiana dei Canti del Servo sofferente di Jaweh:

perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:
«Egli ha preso le nostre infermità
e si è caricato delle malattie»
(Mt 8,17; cfr Is 53,4).

Sulla croce Gesù ha dato un senso nuovo al dolore umano, compresa la malattia: non più di punizione ma di redenzione.

Quanti Santi hanno incontrato Dio proprio nel momento della malattia!

Sant’Ignazio di Loyola si convertì proprio durante la lunga degenza in seguito a una ferita che lo tenne immobile a letto; san Francesco d’Assisi scrisse il suo Cantico di Frate Sole proprio nel momento di più grande sofferenza fisica, ormai vicino alla morte…

San Giovanni Paolo II edificò il mondo intero negli ultimi istanti della sua vita, affrontando dignitosamente le fasi cruciali della sua malattia… e già nel 1984, dopo la lunga degenza seguita all’attentato in Piazza san Pietro, aveva scritto una Lettera Apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana:

soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all’umanità in Cristo. In lui Dio ha confermato di voler agire specialmente per mezzo della sofferenza, che è la debolezza e lo spogliamento dell’uomo, e di voler proprio in questa debolezza e in questo spogliamento manifestare la sua potenza.

(Salvifici doloris, 23)

Prima della Pasqua, invece, l’unica domanda possibile di fronte al dolore era sempre quella di Giobbe: «se Dio è buono, da dove viene il male? Se io ho sempre rispettato le Sue leggi, perché ora mi trovo nella sofferenza e vicino alla morte?»

I nostri ammalati sono un grande tesoro

La malattia – se vissuta con fede – apre tra noi e Cristo in croce un canale di comunicazione del tutto speciale.

Quanti ammalati mi edificano con questa fede quando li vado a visitare! Sono una delle grazie più grandi del mio ministero sacerdotale, e un sostegno grandissimo alla mia azione pastorale.

Non per niente dico sempre che i nostri ammalati sono il “polmone vivente” della Chiesa, e raccomando spesso la preghiera per loro, perché non è altro che una parziale restituzione in confronto alle incessanti preghiere che loro elevano a favore di tutti i fratelli sani della Comunità.

Imparare la compassione

La terza conversione che ci è richiesta dal vangelo di oggi è quella di imparare a condividere con i fratelli il mistero del dolore. Possiamo seguire l’atteggiamento che l’apostolo Paolo ci descrive nella seconda lettura:

mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo.

Noi (a meno che tra i miei lettori non vi sia qualcuno raggiunto da questa grazia) non abbiamo la capacità di operare guarigioni miracolose, ma senz’altro abbiamo la possibilità di condividere la stessa compassione che animava il cuore di Cristo nell’avvicinarsi agli ammalati.

E non dobbiamo pensare che sia una cosa da poco: io lo sperimento ogni volta che ho la grazia e la possibilità di dedicare del tempo ai nostri fratelli infermi.

Quanto è importante farsi prossimi ai sofferenti! È vero che il malato ha bisogno di cure, medicinali, assistenza medica… ma ha ancor più bisogno di speranza e amore!

Che medicina straordinaria è l’avvicinarsi a un ammalato infondendogli speranza, con le parole e i gesti!

Circondare un ammalato di attenzioni, parole e gesti di tenerezza è una sorta di “camera iperbarica”, che lo risolleva nell’animo.

Ricordiamoci poi che tra le opere di misericordia corporali (che abbiamo ascoltato nella solennità di Cristo Re) c’è anche questa specifica attenzione:

«ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36).