Sproporzione infinita. 24ª Domenica del Tempo Ordinario (A)

Una sproporzione che rimarrà incolmabile

Grazie al cielo – a differenza di quanto avviene in natura – la sproporzione tra l’Amore di Dio e il nostro cercare di corrispondervi è, e rimarrà, incolmabile.

Omelia per domenica 17 settembre 2023

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Letture: Sir 27,33-28,9; Sal 102 (103); Rm 14,7-9; Mt 18,21-35

Le leggi della fisica insegnano che in natura tutto muta continuamente in un incessante movimento dovuto alla sproporzione tra pieno e vuoto, caldo e freddo, movimento e inerzia, e che tutto tende all’equilibrio e alla quiete.

È un processo che potrebbe sembrare anche poetico, ma in realtà ha un risvolto terribile, perché la situazione finale di totale equilibrio è irreversibile, e viene definita “morte termica”: nel sistema non c’è più alcuna energia o spinta al cambiamento; l’equilibrio è perfetto ma il sistema è morto.

La sproporzione che ci tiene in piedi

Anche il mondo dello spirito è mosso da una grande sproporzione di forze: quella tra l’Amore infinito di Dio per noi e la nostra incapacità di ricambiarlo (la pagina evangelica che ascoltiamo questa domenica è l’illustrazione di questa verità).

Ma, grazie al cielo – a differenza di quanto avviene in natura – la sproporzione tra l’Amore di Dio e il nostro vuoto è, e rimarrà, incolmabile.

E vi dico subito che questa cosa, che umanamente ci dovrebbe instillare un grande senso di inadeguatezza, è la nostra salvezza: è un bene (anzi, il nostro bene) che questa sproporzione non venga mai colmata, perché, se ciò fosse possibile, avremmo lo stesso esito che nella fisica porta alla “morte termica”.

Se fossimo capaci di eguagliare l’immenso Amore di Dio e di ricambiarlo in egual misura, cesserebbe il nostro rapporto di dipendenza da Lui e – di conseguenza – la spinta a cercarLo in continuazione.

C’è un passaggio bellissimo di sant’Efrem che spiega perché dobbiamo essere felici del perdurare di questa sproporzione:

chi ha sete è felice di bere, ma non si rattrista della sua impotenza a esaurire la fonte. È meglio che la fonte sazi la tua sete piuttosto che la tua sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è placata senza che la fonte sia esaurita, tu potrai bervi di nuovo, ogni volta che avrai sete. Se, al contrario, saziandoti, tu esaurissi la fonte, la tua vittoria diverrebbe la tua disgrazia.

(Efrem il SiroCommento al Diatesseron 1,18-19).

L’antico autore si riferiva alla ricchezza della Parola di Dio, ma possiamo senz’altro dire lo stesso per il Suo Amore misericordioso, fonte inesauribile di grazia.

La nostra disgrazia

Se mai riuscissimo ad esaurire la fonte, ciò sarebbe la nostra disgrazia, non una conquista, ci ammoniva sant’Efrem.

Eppure questa è la tragica situazione dell’uomo, che – fin dalle origini del mondo – non ha altro intento che eguagliare Dio e “livellare” tutto in un pericolosissimo gioco di invidia e gelosia: il peccato originale è causato dalla brama dell’uomo di essere come Dio (cfr Gen 3,4-6).

Peggio ancora, l’uomo contemporaneo, inebriato da un progresso scientifico inarrestabile, sembra affermare di non aver nemmeno più bisogno di un Dio sopra di sé, o – peggio – di sentirsi lui stesso un dio.

La morale del risentimento

Se questa è la tragedia dell’ateismo e dello gnosticismo, il modo di vivere di alcuni “credenti” – lasciatemelo dire – è addirittura peggiore: sembra mosso dalla convinzione di essere in credito verso tutto e verso tutti, perfino verso Dio!

Dite di no?

  • Non stiamo continuamente a recriminare che – con tutto l’impegno che ci mettiamo – Dio ogni tanto potrebbe anche esaudirci?
  • Non continuiamo a fare confronti tra noi – «credenti e praticanti» – e il resto del mondo «brutto e cattivo»?
  • Non siamo degli eterni scontenti che fanno «gné gné» tutto il giorno? Aveva ragione il buon Nietzsche, che accusava i cristiani di seguire la morale del risentimento.

Nessuno di noi può sentirsi esente da questo difetto, se perfino Pietro va da Gesù come una piattola lamentosa a chiedere quante volte è tenuto a perdonare. E non sarà nemmeno la sua ultima lamentela (cfr Mt 19,23-30).

Sempre e in debito

A fronte di questo “difetto di percezione” che ci fa sentire in credito anche verso Dio, Gesù ci svela la situazione reale.

La parabola del servo spietato illustra in modo impietoso come la nostra condizione è (e sarà sempre) quella di un debitore insolvente che non potrà mai onorare i suoi doveri verso Dio, e che qualsiasi credito pensassimo di vantare nei confronti di un nostro fratello, sarebbe di un’infinita sproporzione rispetto a quanto ci è stato condonato.

Scrivo questa omelia nel giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, perciò – mi viene “facile” meditare su questa verità: davanti al Crocifisso quali crediti potremmo mai vantare?

Ripetiamoci spesso le parole dell’apostolo Paolo:

Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto? (1Cor 4,7)

Chi crediamo di essere? Voliamo bassi, fratelli!

Equilibrio orizzontale

Ma, se la sproporzione verticale tra l’Amore di Dio e la nostra miseria rimarrà sempre incolmabile, questo non deve avvenire “orizzontalmente”, nei rapporti coi nostri fratelli; lì occorre portare “equilibrio”.

Dio ci chiede di perdonare di cuore i nostri fratelli, non per “essere buoni”, ma per aiutarlo a far giungere ovunque la Buona Novella della Sua bontà, come testimoni del Suo Amore che perdona.

È una missione evangelizzatrice: l’unico modo che abbiamo per annunciare che Dio è Amore è quello di perdonare, e dire ai nostri fratelli che non li perdoniamo perché siamo buoni e clementi, ma perché siamo in debito verso Dio di molto più Amore e perdono di quello che cerchiamo di dare loro.

Un po’ come se il servo della parabola, incontrando il suo compagno, avesse saputo dirgli: «i cento denari che devi a me, se mai li recupererai, dalli al nostro padrone, oppure a un altro nostro fratello».

L’unico debito da saldare

Resterà sempre la sproporzione tra noi e Dio, saremo sempre in debito verso di Lui, e questo – per assurdo – è la nostra salvezza, come diceva sant’Agostino, felicitandosi addirittura del peccato originale che ci ha meritato un così grande redentore: solo quando riconosciamo la miseria del nostro peccato conosciamo l’infinita grandezza del Suo Amore.

E – badate bene – nemmeno il Signore si preoccupa tanto dei debiti che abbiamo verso di Lui (perché, una volta pentiti, Lui ci perdona sempre), ma di quelli che contraiamo tra noi e non siamo disposti a condonare lasciando scorrere da cuore a cuore il Suo Amore, perché questo – sì – ferma e impedisce il Suo perdono.

Sentirci sempre in credito verso i nostri fratelli ci fa sentire “a posto” o addirittura in credito anche verso Dio, e questo è la nostra rovina, perché pone seri ostacoli al piano di salvezza di Dio.

L’unico modo per invertire la rotta è imparare a sentirci sempre e solo debitori, come ci raccomandava san Paolo nella seconda lettura di domenica scorsa:

Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole (Rm 13,8).