Storie di una tenace speranza. 27ª Domenica del Tempo Ordinario (A)

Una speranza tenace

La Scrittura non racconta solo i nostri rifiuti, ma anche la tenace speranza di Dio che non si dà mai per vinto nel cercare figli a cui affidare la Sua vigna.

Letture: Is 5,1-7; Sal 79 (80); Fil 4,6-9; Mt 21,33-43

C’è ancora una vigna al centro delle parabole di Gesù, per la terza volta. Ma cos’è mai questa vigna?

È il simbolo del mondo, dell’umanità intera, ma soprattutto del popolo scelto ed eletto da Dio, come ci viene detto dal profeta Isaia nella prima lettura di oggi:

«Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele;
gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita»
.

È ciò che Egli ha di più prezioso, di cui si prende cura con Amore, da sempre:

Il mio diletto possedeva una vigna
sopra un fertile colle.
Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi
e vi aveva piantato viti pregiate;
in mezzo vi aveva costruito una torre
e scavato anche un tino.

(cfr la 1ª Lettura)

«c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre».

(cfr il Vangelo)

Un sogno stupendo di cui Dio ci vuol far partecipi

La vigna rappresenta l’esperienza della vita e della storia dell’uomo, uscita come un dono stupendo dalle mani di Dio.

Per di più – nel linguaggio semitico – «piantare una vigna» equivale al nostro «metter su casa»: è il sogno più promettente che un giovane porta nel cuore, da sempre…

Ebbene: questa storia – colma di sogni e desideri – Dio non la vuole condurre da solo, come una sorta di “burattinaio” che muove i fili e decide tutto in autonomia. Di questa storia stupenda Egli ci vuole rendere partecipi, ci vuole coinvolgere in prima persona:

«Andate anche voi nella vigna» (Mt 20,4.7 – è il vangelo di due domeniche fa)


«Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna» (Mt 21,28 – è il vangelo di domenica scorsa)


«La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano» (Mt 21,33 – il vangelo di questa domenica)

Dio vuol «metter su casa» con noi, vuole intraprendere con noi un cammino di speranza e gioia.

Un dono incompreso

Il messaggio è che Dio si fida di noi totalmente, e ci mette nelle mani tutto quello che ha di più prezioso: la nostra vita e tutto il Creato (cfr Gen 1,27-28).

Ma noi non lo capiamo: spesso – invece di viverlo come una gioia e un onore – questo affidamento diventa per noi un peso, un fastidio:

«noi… abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo» (Mt 20,12 – il vangelo di due domeniche fa);


«[il primo] rispose: “Non ne ho voglia”… [il secondo] non vi andò» (Mt 21,29.30 – il vangelo di domenica scorsa).

Oppure ci dimentichiamo del dono ricevuto e ce ne vogliamo impossessare:

«uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!» (Mt 21,38 – il vangelo di questa domenica).

Nei panni di Dio

A questo punto, se ci mettiamo nei panni del Signore, non possiamo che fare eco al Suo canto disperato (che troviamo sempre nel bellissimo poema di Isaia, nella 1ª lettura):

«Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?»

Sembra di ascoltare il lamento sconsolato di un genitore di fronte alle scelte sconsiderate del figlio che si è perso irrimediabilmente, pur avendogli dato tutto quello di cui aveva bisogno per affrontare la vita con coraggio e saggezza.

Le parabole ascoltate in queste ultime tre domeniche riassumono la triste storia della salvezza, nella quale Dio – a più riprese, ma senza fortuna – ha cercato di condurre il Suo popolo verso i pascoli della vita eterna (cfr Sal 23; Ez 34,15), e di farlo ritornare sui suoi passi quando stava uscendo dalla strada buona (cfr Is 31,6; Ger 3,14; Gl 2,12-13).

Il punto più alto di questa angoscia paterna lo troviamo nel lamento di Gesù alla vista di Gerusalemme:

«Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!» (Mt 23,37)

È una vista così struggente che riempie di lacrime il Suo cuore e i Suoi occhi:

Quando fu vicino, alla vista della città [Gesù] pianse su di essa dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi» (Lc 19,41-42).

«I miei pensieri non sono i vostri pensieri»

Ancora una volta, il dialogo che segue la parabola, in cui Gesù chiede ai suoi ascoltatori come dovrebbe comportarsi il padrone della vigna, rivela la distanza siderale che c’è tra il Suo modo di fare e il nostro (cfr Is 55,8):

«Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?»

chiede Gesù ai suoi ascoltatori. La risposta è tremenda:

«Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».

Invece no: Dio non fa morire chi non ha saputo capire il grande Dono che gli era stato fatto, perché Dio è un Padre, e non può reagire con ira, uccidendo i Suoi figli quando sbagliano.

Con lo stesso dolore di un padre e una madre feriti nel profondo, Dio affida ad “altri figli” la Sua vigna. E – anche nel ricominciare da capo – Egli agisce col Suo modo unico e impareggiabile, volgendo il male in bene:

«Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo;
questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”?»

Questo Padre non distrugge la vigna (come si leggeva invece nella prima lettura), ma la affida nuovamente ad altri (pur conoscendo il rischio di imbattersi in altrettanti vignaioli omicidi).

La speranza incrollabile di Dio

Spesso questa parabola è stata interpretata – con una lettura semplicistica – come la descrizione del rifiuto di Israele (popolo inizialmente destinatario della Promessa) e della conseguente “sostituzione” con il nuovo popolo dell’alleanza: i figli della Chiesa di Cristo.

Ebbene, tale lettura ha causato tante sofferenze e distanze nel doveroso dialogo che dobbiamo mantenere coi nostri «fratelli maggiori nella fede» (come li chiamò san Giovanni Paolo II in visita alla sinagoga di Roma).

Nell’affidare la Sua vigna ad altri «figli adottivi», Dio nutre la speranza che i primi si rendano conto di quanto hanno perso e ritornino sui propri passi.

Questi sentimenti sono descritti in modo mirabile da san Paolo nel capitolo 11 della sua Lettera ai Romani: vi consiglio di leggerlo interamente (cfr Rm 11), mentre qui vi riporto solo alcuni passaggi mirabili:

Io domando dunque: Dio ha forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio… Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti. Gli altri invece sono stati resi ostinati… Ora io dico: forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta alle genti, per suscitare la loro gelosia… Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti? (cfr Rm 11,1-2.7.11.15)

Insomma: ancora una volta siamo invitati a leggere queste parabole non tanto (e non solo) come la storia dei nostri fallimenti, dei nostri rifiuti e delle conseguenti delusioni di Dio, ma come il racconto della Sua tenace speranza.

Esse sono l’assicurazione che Egli non si dà mai per vinto di fronte al nostro rifiuto. Dio continua – tenacemente – a farci la proposta di ricominciare ancora una volta la nostra storia d’Amore con Lui:

«Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna» (Mt 21,28).

Una speranza da copiare

Se la speranza di Dio per l’uomo è così tenace, tale deve essere anche la nostra: anzitutto verso noi stessi (non scoraggiandoci subito di fronte alle nostre fragilità), e poi verso le situazioni di quei fratelli che con troppa disinvoltura diamo per “persi” irrimediabilmente.

Anche noi siamo chiamati a «fare della pietra scartata la pietra angolare», a volgere in bene le situazioni negative, a mutare la disperazione in speranza, i rifiuti che riceviamo in occasioni per rafforzare la nostra tenacia.

D’altronde Cristo non trasformato la rozza durezza di Pietro nella roccia su cui fondare la Sua Chiesa (cfr Mt 16,18)?

E non ha mutato la cocciutaggine di Paolo nella capacità di annunciare il Vangelo in ogni situazione, opportuna e non opportuna (cfr 2Tm 4,2)?

Se il proverbio dice che «la speranza è l’ultima a morire», il cristiano sa che la speranza non muore, perché essa è riposta nel Signore, che è «il Dio della speranza» (cfr Rm 15,13):

«Per mezzo di lui [Gesù Cristo] abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,2-5).