Tu sei… relazione. 21ª Domenica del Tempo Ordinario (A)

Faccia a faccia: la relazione col tu rivela il mio io

La fede è una relazione profonda e sincera con Dio: se possiamo confessare che Gesù è il Signore, è solo perché prima Dio ci ha rivelato chi siamo noi per Lui.

Omelia per domenica 27 agosto 2023

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Letture: Is 22,19-23; Sal 137 (138); Rm 11,33-36; Mt 16,13-20

Ho già spiegato tre anni fa che questa pagina di vangelo ci aiuta a capire come la fede, il rapporto con Dio, sia qualcosa di assolutamente personale, basato su una relazione profonda e sincera, non sul “sentito dire”.

Vorrei soffermarmi ancora un po’ su questo concetto.

Occorre qualcuno che ci dica chi siamo

Anche nel rapporto con Dio avviene ciò che sperimentiamo nelle relazioni umane: non possiamo sapere veramente chi siamo finché qualcuno non ci parla di noi; abbiamo necessariamente bisogno di un altro che ci dica «Tu sei…»

L’io si conosce solo incontrando un tu, un’alterità, che gli riveli oggettivamente chi è.

Questa consapevolezza – che l’abbiamo studiata o no – è frutto della riflessione filosofica e letteraria del XIX e XX secolo, in particolare dell’esistenzialismo ontologico e fenomenologico, che approda a Lévinas, la cui filosofia assegna grande importanza all’epifania del volto dell’Altro.

Una consapevolezza antica

Ma, senza dover attendere i letterati e i filosofi degli ultimi secoli, basta che apriamo la Bibbia per renderci conto di questa verità, fin dalle prime pagine: da quel «Non è bene che l’uomo sia solo» pronunciato da Dio all’inizio della creazione (cfr Gen 2,18).

È solo quando Adamo vede Eva che capisce più profondamente chi è in se stesso e si comprende nella sua completezza:

«…è osso dalle mie ossa,
carne dalla mia carne»
(cfr Gen 2,22-23).

Anche Dio è relazione

Solo Dio può dire «Io sono» senza che alcuno debba dirgli qualcosa di Lui, perché Egli esiste da sempre ed è perfetto in Se stesso.

Eppure, sempre leggendo le Scritture, ci rendiamo conto che nemmeno Dio – pur avendone la possibilità e il diritto – si “accontenta” di definirsi per quello che è in Se stesso, ma si definisce subito come “il Dio di qualcuno”, Colui che è entrato in relazione con qualcuno:

«Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (cfr Es 3,6).

È solo in un secondo momento, su esplicita richiesta di Mosè, che rivela la Sua natura misteriosa, di totale alterità:

«Io sono colui che sono!» (cfr Es 3,14)

Ma, immediatamente, Yahweh ribadisce di nuovo che quel nome non è completo fino a quando non si lega a qualcuno in una relazione inscindibile e personale di affetto, amicizia e fedeltà:

Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (Es 3,15).

Una lettura affascinante

È a partire da questi testi che i rabbini sono giunti ad una lettura affascinante dell’affermazione divina «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza» (cfr Gen 1,26): con chi sta parlando Dio, se ancora non c’è nessuno?

Con le piante? Con gli animali? Con gli angeli?

Secondo il midrash Dio – sentendo il profondo bisogno di entrare in relazione – starebbe chiedendo all’uomo stesso il permesso di crearlo!

«Tu sei il Cristo…» – «Tu sei Pietro»

Mi scuso per la lunga premessa, ma era fondamentale per capire la pagina evangelica di questa domenica e la bellezza del dialogo che intercorre tra Pietro e Gesù, che è costruito in modo speculare attorno a due «Tu sei»:

  1. Pietro, interrogato, rivela a Gesù la Sua vera identità di Messia e Figlio di Dio;
  2. Gesù – in risposta – rivela a Simone il suo nuovo nome e la sua nuova identità, di “maggiordomo” della Chiesa e del Regno dei Cieli.

La relazione nasce dalla Rivelazione

Prima di tutto, però, Gesù aiuta Pietro a capire che questa relazione speciale di conoscenza reciproca tra loro ha un’origine divina:

«Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli».

Se Dio non ci si rivelasse, noi non potremmo conoscere nulla di Lui, e – di conseguenza – nemmeno di noi stessi.

Dirà l’apostolo Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi:

nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo (cfr 1Cor 12,3).

Più intimo a noi di noi stessi

Se all’inizio dicevo che non possiamo conoscere veramente noi stessi finché un altro non ci parla di noi e ci aiuta a comprenderci con uno sguardo “altro”, oggettivo, è ancor più vero – per un credente – che nessuno ci conosce meglio dell’Altro per eccellenza, ovvero Dio.

Dio ci conosce da sempre, da prima che esistessimo, perché è Lui che ci ha fatti e ci ha messi in questo mondo, e ci comprende perfettamente in ogni singolo istante della nostra vita perché è più intimo a noi di noi stessi, come diceva sant’Agostino nel testo delle sue Confessioni che cito spesso.

Conoscere Dio è fondamentale

Se solo Dio ci conosce così profondamente e ci permette di conoscere meglio noi stessi (a patto che entriamo in una relazione sincera con Lui), ne consegue che la fede, il rapporto con Dio, non è un optional: è l’unico modo per capire chi siamo e il senso della nostra stessa vita.

Per questo motivo rispondere alla domanda di Gesù («voi, chi dite che io sia?») è cruciale e assolutamente necessario.

Accontentarsi di una conoscenza superficiale di Dio significa vivere in modo altrettanto superficiale e inconsapevole.

Pazienza e costanza

Nessuno può affermare di conoscere una persona finché non si è data del tempo per frequentarla, ascoltarla, interrogarla, osservarla, contemplarla… e più questo lavoro è paziente e quotidiano, più la conoscenza diventa vera e si approfondisce.

Così è anche per la conoscenza di Dio: occorre un ascolto paziente, costante, frequente.

Insomma, dobbiamo fare lo stesso percorso dei grandi credenti della Scrittura, come Giobbe, che disse a Dio:

«Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (cfr Gb 42,1,6).

Torniamo spesso sul monte

Abbiamo bisogno, come Pietro, di fare più e più volte l’esperienza del Tabor che abbiamo rivissuto qualche domenica fa, di lasciarci avvolgere dalla nube come Maria, di metterci in ascolto della voce del Padre, che desidera rivelarci non solo chi è Lui per noi, ma anche chi siamo noi per Lui.

È questo il segreto della preghiera, del silenzio, della contemplazione.

Non buttiamo il tempo inutilmente correndo dietro ogni secondo alle agenzie di stampa, a farci distrarre dai sondaggi, da «quello che si dice in giro», a scorrere freneticamente il pollice sullo schermo del cellulare facendoci gli affari degli altri…

Incontriamoci “faccia a faccia” con gli altri e con il Signore, come piace a Lui (cfr Es 33,11).

Nelle prossime puntate…

Chiedo venia se non ho detto nulla sul tema del potere delle chiavi, ma qualcosa in proposito ho già scritto tre anni fa, e qualcosa lo lascio alla vostra personale riflessione e… alle prossime puntate!