Vicino agli occhi, vicino al cuore? 15ª Domenica del Tempo Ordinario (C)

Vicino agli occhi, vicino al cuore?
Commento alle letture di domenica 10 luglio 2022

Letture: Dt 30,10-14; Sal 18 (19); Col 1,15-20; Lc 10,25-37

Conosciamo tutti l’antico proverbio «lontano dagli occhi, lontano dal cuore», no? Ecco, oggi mi sono chiesto se il detto funzioni anche al contrario: vicino agli occhi, vicino al cuore

Ebbene: la risposta è “no”, e ce lo conferma la celebre parabola del “buon Samaritano” che ascoltiamo nel vangelo di oggi.

Vicino agli occhi, ma lontano dal cuore

Dopo aver descritto in poche parole la storia dell’intera umanità ferita (v. la riflessione di tre anni fa), Gesù ci proietta nel luogo preciso, per faci osservare da vicino quello che succede:

«un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre…»

La strada che andava «da Gerusalemme a Gèrico» non era (e non è) un’autostrada a tre corsie, ma un sentiero scosceso, impervio e stretto, che scende ripido (mille metri di dislivello) nelle gole del roccioso deserto di Giuda.

Il che significa che è impossibile non notare una persona lasciata agonizzante ai bordi del sentiero: bisogna per forza passargli vicino, e – se si vuole procedere – scansarla di proposito, aggirandola!

Insomma: più vicino agli occhi di così!

Quante scuse campate per aria

«Ma il sacerdote e il levita non potevano contaminarsi col sangue, secondo le norme rituali del culto ebraico» – dirà qualcuno, in difesa dei due “ecclesiastici”…

Badate bene: non avevano nemmeno quella scusante! Infatti, anche loro «scendevano», ovvero: stavano tornando da Gerusalemme, la città santa, dove – con tutta probabilità – avevano già prestato servizio al Tempio per un’intera settimana.

Quindi avrebbero potuto «sporcarsi le mani» senza problemi: tanto sarebbe passato un bel po’ di tempo prima di dover accedere nuovamente al servizio del Tempio, e avrebbero avuto tutto il tempo per fare i dovuti riti di purificazione…

Chissà quali altre scuse avranno accampato dentro di sé… l’essere di fretta? Il non avere sufficienti conoscenze mediche? La paura che i briganti fossero ancora in zona?

Il senso del dovere

Tutte scuse plausibili, per carità, ma che ricordano da vicino quelle del ragazzo che – quando sua madre gli chiede di apparecchiare la tavola – risponde sempre che non può perché deve finire i compiti…

C’è sempre qualcosa di più “importante” e “ufficiale” che viene prima della carità, anche nella nostra vita.

La situazione descritta da Gesù nella parabola è una constatazione spietata di quanto succede anche oggi: quante cose importanti a livello umano “scansiamo” accampando le ragioni del dovere? Come “l’uomo d’affari” per il quale viene sempre prima il lavoro rispetto alla moglie e ai figli… e sappiamo bene come va a finire, no?

Non aver mai tempo per misericordia

Anche noi preti abbiamo “incasellato” così bene gli impegni nelle nostre agende che è ormai impossibile fare eccezioni alla tabella di marcia, e così – quando una persona ci chiede di poter parlare – dobbiamo spesso prima correre qua e là…

Il dovere inteso in modo così tiranno ci rende impossibile praticare la misericordia, ed è terribile!

Ed è ancora più doloroso constatare che – la maggior parte delle volte – questi ritmi assillanti e queste agende piene non ci sono state imposte dall’alto, ma le abbiamo programmate noi…

Dalla pandemia non abbiamo proprio imparato nulla (nonostante avessimo giurato che dovevamo rallentare e sfrondare i nostri calendari pastorali da tante cose inutili).

Vicino a Dio senza incontrarlo

Verrebbe da dire che il sacerdote e il levita erano stati un’intera settimana al cospetto di «Jaweh il misericordioso» (cfr Es 34,5-7) senza nemmeno incontrarlo: assurdo!

Ma non siamo così anche noi preti di oggi? A forza di fare e fare rischiamo di attuare il detto che la tradizione popolare attribuiva ai sacristi:

«sempre in chiesa ma mai a Messa!»

Ovvero: abbiamo sempre tra le mani Cristo che offre la Sua vita per l’umanità, ma poi non abbiamo tempo (o facciamo di tutto per non averlo?) per prolungare la Sua presenza nella vita e nella storia.

La cosa vale per ogni singolo fedele, perché l’Eucaristia (che è – sì – presieduta dal sacerdote) è celebrata da tutti quanti i battezzati.

Gli “addetti ai lavori”

Noi cristiani rischiamo di pensare che la carità sia un affare da “addetti ai lavori”: i Centri d’Ascolto Caritas, le Associazioni di volontariato come il Patronato San Vincenzo etc….

Ma l’amore è la legge di ogni cristiano! Ed è del tutto inutile che ci riempiamo la bocca leggendo l’Inno alla carità di san Paolo (cfr 1Cor 13), se poi quella pagina rimane semplicemente un “testo” carino da mettere sul libretto di matrimonio!

Anche il Samaritano avrebbe potuto pensare «non è affar mio», ma invece si è sentito chiamato in causa in prima persona.

Solo Gesù è il Samaritano

In questa parabola, come dicevo all’inizio, siamo proiettati subito vicino all’uomo aggredito dai briganti, perché egli rappresenta tutta l’umanità ferita, e non solo dalla povertà, dalla miseria e dall’ingiustizia, ma prima ancora (e prima di tutto) dai propri peccati, dalle proprie chiusure.

E se possiamo tentare di immedesimarci anche con gli altri “passanti”, dobbiamo però fermarci al sacerdote e al levita, perché nessuno (nonostante l’invito di Gesù «Va’ e anche tu fa’ così») potrà mai avere il coraggio e l’ardire di identificarsi col Samaritano.

“Samaritano” è solo Gesù: così l’avevano definito in modo sprezzante i Giudei, per dargli dell’eretico e dell’estraneo alla vera religione (cfr Gv 8,48)…

Sì: Gesù è “Samaritano” perché si è “spogliato” di tutto, della sua divinità (cfr Fil 2,5-11) e della sacralità del culto ebraico, per potersi «sporcarsi le mani» e «farsi vicino» all’umanità ferita.

Dalla Legge (intesa come le prescrizioni della Torah), infatti, non si può ricevere alcun aiuto, perché – come dice san Paolo – essa serve solo a dirci cosa è giusto o sbagliato (cfr Rm 3,20), a condannare il peccato: nulla più.

Per questo Gesù si è fatto “fuorilegge”, “peccatore” e “peccato” Lui stesso, per poterci salvare:

Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio (2Cor 5,21).

Noi siamo l’albergo

Se c’è un personaggio o un luogo in cui Gesù ci invita a immedesimarci per davvero, è l’albergatore, o – meglio – l’albergo.

Nel testo greco “albergo” è scritto pandokèion, che significa «la casa che accoglie tutti»: i Padri vi hanno visto immediatamente l’immagine della Chiesa, quel luogo dove Gesù porta l’umanità aggredita e ferita perché essa venga accudita e curata «fino al Suo ritorno».

Solo Gesù può «versare olio e vino» (simbolo dei Sacramenti) sulle ferite dell’uomo, solo Lui può risollevarlo e caricarlo su di sé, ma tocca alla Chiesa «averne cura», senza paura di «spendere in più», sicuri che Cristo «ci “pagherà” al Suo ritorno».

Ma che “albergo” siamo?

E questa è l’ultima “stoccata” che mi (e vi) lascio:

siamo davvero «la casa che accoglie tutti»?

Sono aperte le porte delle nostre Comunità oppure innalzano muri invalicabili?

E – badate bene: – qui il malcapitato pestato dai briganti non è tanto il profugo ucraino, il barbone, il senzatetto (quelli speriamo di essere capaci di accoglierli e soccorrerli)… ma il fedele di un’altra parrocchia che si è appena trasferito da noi, il pellegrino che viene a visitare Sotto il Monte e si offre per leggere le Letture alla Messa, il giovane che vorrebbe entrare a far parte del tale o tal altro gruppo parrocchiale…

Siamo capaci di farci prossimi, vicini a queste persone o le allontaniamo coi soliti ritornelli «non c’è bisogno (che è falso, perché le parrocchie hanno sempre più carenza di volontari)… bisogna sentire il responsabile del gruppo… occorre chiedere prima al Parroco…»?

Sono tante le persone che il Signore ci mette vicino, sotto gli occhi, ma quante di loro sappiamo accogliere veramente nel cuore?