Memoriale e rito perenne

Memoriale e rito perenne

Quello di Pesach non è un rito nostalgico, ma il memoriale, la memoria viva e attuale di quanto i nostri fratelli Ebrei hanno vissuto e ha cambiato la loro vita

Commento alle letture di venerdì 21 luglio 2023

Letture: Es 11,10-12,14; Sal 115 (116); Mt 12,1-8

Il Lezionario salta a piè pari ben otto capitoli: dalle varie rimostranze di Mosè, al dono del bastone miracoloso, all’aggiunta del fratello Aronne, al primo incontro col faraone, all’inasprimento della schiavitù nei confronti del popolo d’Israele, a tutte le cosiddette “piaghe d’Egitto”.

Un testo complesso

Col brano che ascoltiamo oggi ci troviamo di fronte ad un’altra altissima “pagina fondativa”: quella in cui Dio dà le istruzioni sulla celebrazione del rito pasquale.

Gli studiosi ci dicono che il testo è il frutto di una laboriosa redazione e “cucitura” di diverse fonti e tradizioni, che riescono a prendere l’occasione del racconto dell’ultima notte in Egitto e farne il testo normativo per lo svolgimento della cena pasquale ebraica.

Dio ci lascia liberi?

Prima di introdurre il capitolo 12, però, il Lezionario ci riporta gli ultimi tre versetti del capitolo precedente, che fa da “cerniera” con la narrazione delle prime nove piaghe, e ci lascia una frase piuttosto difficile da capire:

…ma il Signore aveva reso ostinato il cuore del faraone, il quale non lasciò partire gli Israeliti dalla sua terra.

È un’affermazione che torna diverse volte (assieme all’altra, in cui è il faraone ad ostinarsi per propria volontà: cfr Es 9,7), e pone un problema non piccolo: quello del libero arbitrio.

Una lettura ebraica

Come sempre non ho tempo né spazio per approfondire la questione qui, ma – se volete – potete leggere un interessante articolo sul sito Sguardo a Sion, con alcune ipotesi di esegesi ebraica.

Una lettura cristiana

Oppure un’interessante riflessione di Divo Barsotti:

nel linguaggio semitico l’espressione vuol dire che Dio manifestò la durezza di questo cuore, che egli provocò la manifestazione di questa durezza… Dio vuole che quello che l’anima nasconde si riveli anche agli altri…

Si può riconoscere nella storia del faraone un’opposizione sempre più feroce… la furiosa volontà di un uomo che vuole mantenersi fermo nella sua posizione, che non vuole essere vinto, che non vuole essere travolto dalla volontà di Dio. Fin dall’inizio il faraone si oppone a Dio nel modo più pieno; egli non ha altro dio all’infuori di sé… gli avvenimenti che seguiranno non faranno che manifestare i frutti di questo orgoglio, frutti spaventosi di morte…

Questo è il faraone… l’immagine del demonio, dell’avversario di DIO… La missione di Mosè è come la missione di Cristo: chiarifica i cuori.

(Divo Barsotti, Meditazione sull’Esodo, San Paolo 2008)

La ricchezza dei simboli

Tornando al corpo principale del nostro testo, credo che ci sarebbe da scrivere un’enciclopedia.

Il modo migliore per capire in profondità questo rito è quello di vivere (assieme ad un gruppo non troppo numeroso di persone) la cosiddetta Cena Ebraica rivissuta da cristiani: un’esperienza che ho riproposto più volte negli anni, sia agli adulti che ai ragazzi.

Qui non possiamo dilungarci troppo, ma i simboli contenuti in quel rito sono molto forti:

L’agnello sacrificato

È il “sostituto”, in riscatto dei propri primogeniti (a differenza di quelli degli Egiziani, che invece vennero uccisi dell’angelo sterminatore mandato da Dio proprio in quella notte di preparativi furtivi prima della fuga dall’Egitto: cfr Es 13,11-16). Il suo sangue, sparso sugli stipiti e gli architravi delle case degli Israeliti tiene lontano lo sterminio, segnalando che dentro vi sono i figli di Dio.

Il pane azzimo

Il pane non lievitato è simbolo della fretta di partire (la levitazione naturale richiedeva dalle 24 alle 48 ore) e della novità assoluta di quello che successe quella notte (la levitazione naturale si innescava mischiando polvere di pane raffermo nell’impasto di acqua e farina fresca, perciò, occorreva del “pane vecchio”; il pane azzimo – invece – era un pane totalmente nuovo).

Le erbe amare

Assieme all’acqua salata usata per intingerle (richiamo alle lacrime) sono il simbolo dell’amarezza e della sofferenza di 430 anni di schiavitù e persecuzione operata dal faraone sul popolo d’Israele.

I sandali ai piedi

«Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta».

Non è solo un pasto, una cena, ma l’inizio di un pellegrinaggio di liberazione, dell’Esodo stesso, il simbolo di un’intera vita in cammino verso la Terra Promessa.

La parola “Pesach”

È il termine ebraico che dà origine al nostro vocabolo “Pasqua”; significa “passaggio”, e simboleggia tanti passaggi diversi operati in quella notte gloriosa:

  • Il «passare oltre» le porte intinte di sangue da parte dell’angelo sterminatore (cfr Es 12,13.27);
  • Il passaggio dalla schiavitù alla libertà;
  • Il passaggio miracoloso attraverso il Mar Rosso;
  • Il passaggio dalla morte alla vita (questo è il motivo per il quale anche l’uovo trova posto sulla tavola della Pasqua ebraica ed è giunto fino a noi, tanto da diventare – a livello consumistico – il simbolo principale di questa festa).

Il memoriale

La frase finale del brano è un importantissimo “sigillo”:

«Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne».

La parola “memoriale” (che noi cristiani utilizziamo tuttora per definire la celebrazione eucaristica) sta a indicare che il rito prescritto non è solo un ricordo nostalgico, o la “messa in scena” dei fatti accaduti allora.

Celebrare la Pasqua (per gli Ebrei, come per noi cristiani) è fare memoria, ma secondo il concetto “sacramentale”: per il credente, quando si compie un sacramento, accade veramente e nuovamente quello che il simbolo vuole significare.

Recuperare genuinità

Perciò, rileggere questo rito in modo così pregnante, ci richiama al dovere di recuperare la profondità e genuinità di quello che celebriamo ogni giorno.

Ritornare con Gesù che lo celebra più volte coi Suoi discepoli fino a quella fatidica sera in cui li ha letteralmente scioccati e sorpresi con parole del tutto nuove (sostituendo l’agnello con il Suo proprio corpo e il sangue con il Suo proprio sangue) è fondamentale.

Altrimenti, ci meritiamo le stesse parole di rimprovero che Gesù rivolge ai farisei nel vangelo di oggi:

«Se aveste compreso che cosa significhi: “Misericordia io voglio e non sacrifici”, non avreste condannato persone senza colpa».