Cosa possiamo chiedere a Dio? 29ª Domenica del Tempo Ordinario (B)

Ma cosa mi tocca sentire?!

Letture: Is 53,10-11; Sal 33; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45

Avete presente quel meme che ha preso il nome di facepalm? (se così non fosse, guardate l’immagine di copertina di questa omelia e cercate su Wikipedia le parole meme e facepalm)

Ecco: se volessimo rendere ridicolo il brano di vangelo di questa domenica e immaginarci la reazione di Gesù davanti alla richiesta di Giacomo e Giovanni, dovremmo immaginarcelo proprio così: con la mano sul viso, in segno di disperazione.

Al posto Suo, io avrei risposto – spazientito – con la classica domanda: «ma ci siete?»

Per dire: «ma cosa avete nella testa? Ma mi state ad ascoltare?»

Fuori di testa

Per di più, la situazione non era affatto ridicola, e ciò rende la cosa ancora più surreale e imbarazzante.

Il momento era tragico, perché – per la terza volta – Gesù aveva annunciato la Sua imminente Passione:

Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà».

Quelli appena citati sono esattamente i 3 versetti che precedono la domanda scriteriata dei due figli di Zebedeo:

«Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo… Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».

Se il “cosa” era già fuori luogo (un desiderio smodato di gloria, onore, potere e importanza), ancor più inopportuni furono il “come” («vogliamo che tu faccia») e il “quando” (immediatamente dopo l’annuncio della Passione).

Bisogna essere “fuori di testa” per fare una richiesta così… e soprattutto, fuori dalla testa e dal cuore di Dio.

Ancora una volta possiamo rispecchiarci totalmente nei Dodici, e constatare – grazie alla loro sincerità – che davvero la nostra mente e il nostro cuore distano milioni di chilometri da quelli del Signore:

«i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is 55,8-9).

«Voi non sapete quello che chiedete»

La domanda del tutto fuori luogo di Giacomo e Giovanni mi fa pensare a quante volte anche noi ci rivolgiamo al Signore nella preghiera senza pensare affatto a cosa realmente Gli stiamo chiedendo: se sia o no il caso di chiederglielo, se sia bene per noi, e – soprattutto – se sia secondo la Sua volontà.

Quante volte – non vedendo esaudite le nostre richieste – ci lamentiamo, dicendo «il Signore non mi ascolta!»

Ma ci siamo mai chiesti se – a fronte di quel che Gli domandiamo – la nostra possa realmente definirsi una preghiera?

Domande imbarazzanti

I nostri due cari “personaggi” non erano nuovi a simili sfacciataggini e veemenze… non a caso Gesù li aveva soprannominati Boanèrghes (“figli del tuono” – cfr Mc 3,17):

…entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,52b-54)

Dialoghi o monologhi?

Non siamo forse così anche noi quando invochiamo Dio di fare il “castigamatti” di tutte le persone che non ci vanno a genio in questo mondo?

E quando – al contrario – nelle nostre “preghiere” facciamo dei monologhi per spiegare al Signore quanto siamo bravi, migliori degli altri, e degni di trattamenti di favore? (cfr la parabola del fariseo e del pubblicano e la riflessione che proponevo due anni fa).

Le cose come le vede Dio

Davanti a questa uscita infelice, per l’ennesima volta, il Maestro non si scompone, non si arrabbia e non manda a casa “bocciati” i suoi discepoli, ma prende l’occasione per fare un’altra catechesi, preziosissima, sul modo che Dio ha di guardare le cose:

«Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi» (Mc 10,31).

È il versetto che seguiva immediatamente al brano ascoltato domenica scorsa (e che – purtroppo – la Liturgia non ci ha fatto ascoltare): Dio inverte le nostre scale di valori e le nostre “classifiche”.

Maria l’aveva capito benissimo, e cantato nel suo Magnificat:

«ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili» (Lc 1,51b-52).

Coi fatti, non con le parole

Davanti alle pretese di grandezza dell’uomo, Gesù pone come alternativa l’abbassamento:

«chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti».

Questa proposta ai Suoi discepoli (e a noi) non è solo un insegnamento teorico, fatto di parole, e nemmeno un comando o un’imposizione, ma il percorso che Lui stesso ha fatto, per primo:

«il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

È il mistero della kènosi (“abbassamento”, “spogliazione”), che l’apostolo Paolo canterà egregiamente nella sua lettera ai Filippesi:

Cristo Gesù,
pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini…
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce
(cfr Fil 2,5-11).

Umiltà come condizione necessaria

L’umiltà che Gesù insegna ai Dodici non è solo un atteggiamento e una virtù da vivere, ma anche la condizione necessaria per pregare, ovvero: per metterci in dialogo con Dio.

Se le nostre preghiere “non funzionano” è perché noi – dall’alto della nostra superbia – pensiamo di saperla più lunga di Dio: ci mettiamo “sopra di Lui”, credendo di sapere già cosa sia meglio per noi, per gli altri e per il mondo: gli parliamo «guardandolo dall’alto verso il basso».

Ma nessun dialogo funziona guardando l’altro dall’alto verso il basso, tantomeno quello tra l’uomo e Dio.

Come ricordavo sopra (citando la parabola del fariseo e del pubblicano), non si può entrare in dialogo col Signore se non ci si “abbassa” al livello al quale Lui stesso si è abbassato.

Egli – per mostrarci la Sua vicinanza e la Sua volontà di “mettersi nei nostri panni” – si è umiliato fino a diventare uomo, per guardare il mondo “con occhi di uomo” (anche se non ne aveva assolutamente bisogno).

Il Maestro della preghiera

Quando Gesù ha insegnato ai Suoi a pregare ha raccomandato di chiamare Dio col nome di “Padre” (cfr Lc 11,2), per dirci che la preghiera funziona esattamente come il dialogo tra un padre e il figlio.

Un padre o una madre, pur essendo adulti e avendo autorità sulla prole, si abbassano continuamente per andare incontro ai bisogni e alle esigenze dei loro piccoli, o li sollevano verso di loro.

Addirittura, adattano il loro linguaggio fintantoché i loro bimbi non sono in grado di comunicare in modo articolato e forbito. La Scrittura è piena di queste immagini:

«ero per loro
come chi solleva un bimbo alla sua guancia,
mi chinavo su di lui
per dargli da mangiare»
(Os 11,4).

«Voi sarete allattati e portati in braccio,
e sulle ginocchia sarete accarezzati.
Come una madre consola un figlio,
così io vi consolerò» (Is 66,12-13).

Come è tenero un padre verso i figli,
così il Signore è tenero verso quelli che lo temono
(Sal 103,13).

Noi non sappiamo pregare

Cosa non farebbe Dio per noi, per starci vicino! Ma noi – invece di sentirlo come un Padre amorevole – lo trattiamo come un padrone esigente a cui cercare di “strappare un aumento di stipendio”.

Nella preghiera dovremmo sempre ricordare quello che ci ha insegnato Gesù:

«Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,7-8).

Dobbiamo ammetterlo: non sappiamo pregare, come diceva san Paolo:

«non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente» (Rm 8,26b);

o – peggio – come accusava l’apostolo Giacomo:

«chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni» (Gc 4,3).

Cosa dobbiamo chiedere?

Allora cosa e come dobbiamo chiedere nella preghiera? Quello che ci dice Gesù:

«Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,31-33).

Giacomo e Giovanni chiedevano di sedere nella gloria di Dio alla Sua destra e alla Sua sinistra… se avessero saputo che alla destra e alla sinistra di Gesù glorificato (in croce) ci sarebbero stati altri due crocifissi, non avrebbero certo avanzato questa richiesta, e nemmeno avrebbero risposto – baldanzosi – di essere pronti a bere lo stesso calice di Gesù e a ricevere il Suo stesso battesimo.

«Cercate, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia», ci dice Gesù: è una delle prime invocazioni della preghiera che Egli stesso ci ha insegnato:

«Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno…» (Mt 6,9-10).

Il modello di ogni preghiera

Per questo i Padri della Chiesa insegnano che ogni nostra preghiera deve avere come struttura e punto di riferimento il Padre nostro, che appunto ci ricorda che

  • non abbiamo nessuna “credenziale” nei confronti di Dio (perché Egli è nostro Padre e – come tale ci ama, gratuitamente, indipendentemente dai nostri meriti);
  • che noi siamo tutti Suoi figli, e fratelli tra di noi (infatti ci ha insegnato a pregarlo al plurale);
  • che Egli «non fa preferenza di persone» (cfr At 10,34 e Rm 2,11), perché Lui ama tutti, buoni e cattivi (cfr Mt 5,45);
  • che siamo tutti sulla stessa barca: peccatori bisognosi del Suo perdono e ancora incapaci di donarcelo a vicenda;
  • che siamo tutti in balìa della tentazione (del potere, dell’avere, della fama…);
  • che senza di Lui saremmo perduti.

Ancora una volta – se ci venisse la tentazione di “alzare la testa” e “crederci chissà chi” – la cura è solo una: tornare piccoli come bambini, e lasciarci prendere in braccio dal nostro Papà del Cielo.