Obbedire ciecamente. 2ª Domenica di Quaresima (A)
Obbedire ciecamente a Dio è l’unico modo per trovare la strada e raggiungere il traguardo, perché noi siamo ciechi, e occorre che Lui ci guidi coi Suoi comandi.
Omelia per domenica 5 marzo 2023
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Letture: Gen 12,1-4; Sal 32 (33); 2Tm 1,8-10; Mt 17,1-9
Ogni anno la Liturgia delle prime settimane di Quaresima ci fa ascoltare gli stessi vangeli: nella prima domenica il brano delle tentazioni di Gesù nel deserto e nella seconda quello della Trasfigurazione.
Così anche oggi, dal «monte altissimo» su cui il diavolo aveva portato Gesù per fargli rimirare «tutti i regni del mondo e la loro gloria», saliamo di nuovo «su un alto monte».
Una suggestione interessante
Ascoltando e leggendo vari commenti in preparazione a questa omelia ho trovato una suggestione interessante suggerita da Monsignor Erio Castellucci (vescovo di Modena-Nonantola e Carpi): che il monte in questione sia lo stesso, visto che anche qui si presenta una tentazione (quella di Pietro di fermare il tempo e rimanere nella gloria di Dio senza passare dalla Croce).
C’è sempre la tentazione di bypassare la Croce e la sofferenza: l’ha avuta Gesù e ce l’abbiamo noi, ogni giorno.
Ci piacerebbe poter eliminare dalla nostra vita tutto ciò che ci fa soffrire, ma la sofferenza è necessaria: non è fine a se stessa, ma fa parte del cammino che porta alla Pasqua. Per questo Gesù – annunciando la sua Passione – ha sempre usato verbi di necessità:
«Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno» (cfr Lc 24,7).
Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto… (cfr Mt 16,21).
A tu per tu con Dio
Che sia la stessa montagna oppure no, nella Scrittura, il monte alto è sempre il luogo deputato all’incontro a tu per tu con Dio.
Perciò, non è un caso che anche in questa occasione appaiano i due maggiori rappresentanti dell’esperienza di Dio, fatta proprio in cima ad alti monti: Mosè ed Elia (cfr Es 19 e 1Re 19).
Il monte è il luogo dove Dio parla e manifesta la Sua voce, la Sua volontà. E così accade nel brano odierno.
Come nel racconto del battesimo al Giordano (cfr Mt 3,13-17) anche qui la voce di Dio scende dal cielo per indicare la vera identità di Gesù, e le parole pronunciate sono le medesime:
«Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».
Ma questa volta se ne aggiunge una fondamentale: «Ascoltatelo».
Fede e opere
Già nell’omelia di tre anni fa facevo leva sulla necessità di “trasfigurarci” da semplici spettatori ad ascoltatori sinceri, ovvero: fidarci di Gesù in quanto Figlio mandato da Dio e – come tale – prenderlo sul serio, e seguirlo sulla via della Croce.
È una conversione che tutti i cristiani devono fare: passare dalle fede in Gesù riconosciuto come Messia alla fiducia totale in Lui, dimostrata nel fare quello che Lui ci chiede.
Non basta dire «Gesù è il Cristo», fermandosi a una fede concettuale, fatta di formule dogmatiche ripetute “a macchinetta”: una fede simile sarebbe arida e inutile.
In tal senso vi invito a leggere il bellissimo passaggio della lettera di san Giacomo apostolo (cfr Gc 2,14-26) che ad un certo punto dice:
la fede, se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta… Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! Insensato, vuoi capire che la fede senza le opere non ha valore?
Detto, fatto
Continuando con la provocazione, Giacomo ci propone come esempio sublime di fede la figura di Abramo:
Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le sue opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? …E si compì la Scrittura che dice: «Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia», ed egli fu chiamato amico di Dio.
Già nel racconto della prima lettura appare in Abramo una fede vivida e concreta, che si manifesta nella cieca obbedienza alla Parola di Dio:
il Signore disse ad Abram:
«Vàttene dalla tua terra,
dalla tua parentela
e dalla casa di tuo padre,
verso la terra che io ti indicherò»…Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.
Detto, fatto. Senza soluzione di continuità, Dio parla e Abramo obbedisce: questa è la fede sincera, che si rende vera e concreta attraverso le opere. Tra il dire e il fare non c’è di mezzo più niente.
Ascoltare è obbedire
Nella lingua ebraica non esiste nemmeno il verbo “obbedire”: per indicare l’obbedienza si usa sempre “ascoltare”.
D’altronde, anche nel nostro linguaggio parlato adoperiamo “ascoltare” in questo senso: «ah, se mi avessi ascoltato…», «vedi? Non mi ascolti mai!»
L’etimologia stessa del verbo obbedire richiama l’ascolto: “obbedire” significa letteralmente «ascoltare chi sta dinnanzi», «prestare ascolto».
Ascoltare, fidarsi, obbedire
L’ascolto di Dio diventa effettivo, ed è segno di vera fede, solo quando ci fidiamo di Lui fino ad obbedire alla Sua Parola.
A nessuno di noi piace obbedire, soprattutto se si tratta di obbedire ciecamente, senza “se” e senza “ma”, ed è comprensibile, perché molte volte siamo stati feriti per aver riposto la nostra fiducia nelle persone sbagliate.
Ma qui si tratta di fidarsi di Dio, di obbedire a Lui, non a uno qualsiasi, e perciò non vale il tipico proverbio «fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio».
Obbedire ciecamente a Dio è l’unico modo di trovare la nostra meta.
Per capire questa cosa dobbiamo guardare alle gare di alcuni sport paralimpici dove un atleta non vedente si fida ciecamente delle indicazioni vocali che gli vengono impartite dalla sua guida. Ce lo potrebbe testimoniare benissimo il nostro compaesano Oney Tapia, campione paralimpico.
Siamo ciechi, perciò dobbiamo obbedire
Finché non ammetteremo di essere ciechi e di aver bisogno di farci prendere per mano da Dio, obbedendo fedelmente ai Suoi comandi, non potremo intraprendere un vero ed effettivo cammino di fede, ma continueremo a camminare a zonzo e muovendoci a tentoni.
Sarà un tema che tornerà nella quarta domenica di Quaresima, alla fine del racconto del cieco nato: la presunzione di vederci bene rende ciechi e ci fa rimanere nel nostro peccato.
Alla fin fine, è sempre la questione fondamentale narrata nella prima lettura di domenica scorsa: la pretesa di Adamo ed Eva di vederci meglio di Dio nel giudicare il bene e il male nasce proprio dal non fidarsi di Lui, e – di conseguenza – dal non ascoltarlo e non obbedire al Suo comando.