Un «grazie» non guasta. 28ª Domenica del Tempo Ordinario (C)

Grazie!

Saper dire «grazie» è sempre più raro in un mondo basato sullo schema dei diritti e dei doveri. Perciò ci è sempre più difficile credere, sperare e amare.

Omelia per domenica 9 ottobre 2022

Letture: 2Re 5,14-17; Sal 98 (99); 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

Perché è così difficile dire «grazie»? È una delle parole più corte, eppure manca sempre più spesso dal nostro linguaggio.

Se dovessimo prendere la pagina evangelica di oggi come riferimento statistico, dovremmo constatare che le persone che sanno ringraziare sono solo il 10%… beh: forse anche meno, nella realtà.

Basta lavorare sodo

Dire «grazie» significa riconoscere di aver ricevuto qualcosa in modo inaspettato e immeritato… ma in un mondo improntato al consumismo tutto è percepito come oggetto: di desiderio e di conquista.

Siamo convinti che ogni cosa si possa comprare: basta lavorare sodo, guadagnare bene, e poi spendere come e quando vogliamo.

L’impegno e la fatica nel lavoro giustificano perfino l’ingiustizia distributiva e sociale, perché se io ho guadagnato con fatica e sudore i miei soldi, posso farne ciò che voglio, senza sentirmi in colpa verso chi non lo può fare; anzi: magari mi permetto di giudicare la povertà altrui, attribuendola ad un probabile minor impegno o “lazzaronismo”.

Non tutto si può comprare

Ma in questo mondo fatto di cose, ci impoveriamo sempre più delle relazioni con le persone: anche nei rapporti interpersonali facciamo entrare la regola del consumo, dove tutto è dovuto e niente è dono.

Perfino le relazioni più importanti, come quelle famigliari, vengono ridotte ad un arido “tariffario” di diritti e doveri: «io ho fatto la mia parte, ora tocca a te! È un tuo dovere occuparti dei figli: io mi spacco la schiena al lavoro!»…

Per questo – sempre più spesso – le famiglie si disintegrano e si sfasciano: dovrebbero fondarsi sull’amore (che è quanto di più gratuito ci sia) e invece si riducono a senso del dovere.

L’amore non si può comprare, come dice in modo molto eloquente il Cantico dei Cantici:

Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che disprezzo (Ct 8,7b).

…tantomeno Dio!

Anche nel rapporto con Dio abbiamo fatto entrare il tarlo del diritto e del dovere.

La fede – che scaturisce dall’esperienza della misericordia di Dio ricevuta in modo totalmente gratuito e immeritato – è sempre più ridotta ad un rapporto di dare-avere.

Dio è puro dono d’Amore, ma spesso noi cerchiamo di stabilire con Lui un rapporto “commerciale”: «io ho fatto i miei doveri da buon cristiano, e quindi ora Tu mi devi ascoltare ed esaudire in quello che Ti chiedo!»

E quando non veniamo esauditi nelle nostre pretese rimaniamo delusi.

Dio ci delude perché per Lui non siamo dei “contraenti”, ma figli!

Per dovere o per amore?

È significativo che i nove lebbrosi di religione ebraica seguano pedissequamente la legge di Mosè (cfr Lv 13,45-46 e Lv 14,1-32): è il segno di una fede che ormai si è ridotta a pura religione, a regole liturgiche e solo rituali, svuotate di ogni senso di gratitudine.

Tutti e dieci partono bene (si fidano della parola di Gesù prima ancora di vedersi guariti e si incamminano verso i sacerdoti, come se già lo fossero), ma solo uno si lascia trasformare fino in fondo.

I nove lebbrosi giudei seguono la “burocrazia” e “impacchettano” ogni aspetto della loro vita (perfino i miracoli!) in schemi predefiniti; il lebbroso Samaritano, invece, si lascia pervadere dallo stupore, dalla meraviglia, e “rompe gli schemi”, tornando sui suoi passi per dire «grazie».

Lo dicevo già nella riflessione di tre anni fa: spesso abbiamo ridotto la nostra Eucaristia (che significa “ringraziamento”, “azione di grazie”) ad un atto formale da compiere per soddisfare Dio e poter ottenere da Lui quello di cui abbiamo bisogno, dimenticando che – invece – siamo noi a dovere dire «grazie», perché Lui ci ha dato non delle cose, ma tutto Se stesso.

Tre parole che aprono la strada

Spesso Papa Francesco ha sottolineato l’importanza del saper ringraziare, in particolare quando ricorda le tre parole che «aprono la strada per vivere bene nella famiglia, per vivere in pace», e che sono “permesso?”, “grazie”, “scusa”: le ha descritte bene in una catechesi sulla famiglia tenuta durante l’udienza generale del 13 maggio 2015.

In particolare, riguardo al “grazie”:

La gentilezza e la capacità di ringraziare vengono viste come un segno di debolezza, a volte suscitano addirittura diffidenza. Questa tendenza va contrastata nel grembo stesso della famiglia. Dobbiamo diventare intransigenti sull’educazione alla gratitudine, alla riconoscenza: la dignità della persona e la giustizia sociale passano entrambe da qui. Se la vita famigliare trascura questo stile, anche la vita sociale lo perderà. La gratitudine, poi, per un credente, è nel cuore stesso della fede: un cristiano che non sa ringraziare è uno che ha dimenticato la lingua di Dio.

Passepartout

Dobbiamo re-imparare a dire “grazie”, per poter re-imparare la lingua di Dio.

Ricordo con affetto e nostalgia una canzoncina del CRE-Grest 2012 (intitolato Passpartù) che riprendeva proprio questa raccomandazione di Papa Francesco:

Ciao, grazie, scusa e per favore
son le parole per fare magie,
dal giorno che le ho imparate, che belle giornate che ho!
Ciao, grazie, scusa e per favore
prova ad usarle e vedrai pure tu:
aprono tutte le porte, proprio come un passepartout!

Sì: proviamoci ad usarle più spesso queste parole, e faremo accadere miracoli.