Credere è decidere. 21ª Domenica del Tempo Ordinario (B)

Bisogna decidere

Non si può aspettare di capire tutto: bisogna decidere di credere. Solo allora si trova il senso delle cose, di sé, degli altri, di Dio

Letture: Gs 24,1-2.15-17.18; Sal 34; Ef 5,21-32; Gv 6,60-69

Domenica scorsa il calendario liturgico ci ha fatto celebrare la Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria al Cielo, perciò abbiamo saltato una “puntata” del capitolo 6° del vangelo di Giovanni, che avevamo iniziato a leggere un mese fa.

E ci siamo persi proprio il “punto cruciale”, ovvero la goccia che ha fatto traboccare il vaso e sancito definitivamente un punto di rottura tra Gesù e i suoi ascoltatori.

Parole incomprensibili

Infatti, nel brano evangelico che avremmo letto nella 20ª Domenica del Tempo Ordinario, Gesù pronuncia parole pesantissime, impossibili da capire:

«…il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.

…se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (cfr Gv 6,51-58).

Magiare la carne, bere il sangue

Facciamo fatica a “digerirle” noi, dopo duemila anni di cristianesimo e dopo centinaia di Sante Comunioni ricevute… figuriamoci la gente del tempo!

Carne e sangue nella teologia biblica non sono solo questioni di anatomia (che – per l’appunto – mettono a disagio pure noi, immaginando atti di cannibalismo).

La carne indica tutta la fragilità dell’uomo: pensiamo a quante volte Paolo la nomina nel suo epistolario.

Il sangue invece rappresenta l’essenza, la vita, dono misterioso di Dio ad ogni creatura.

Significato fin troppo chiaro

Se l’invito a mangiare la carne e bere il sangue può davvero essere una parola incomprensibile, il significato dell’invito è fin troppo chiaro.

Già a metà del 1800 il filosofo tedesco Feuerbach – alla luce degli studi più recenti e accreditati – affermava:

«noi siamo quello che mangiamo»

e aveva ragione: perché la salute si costruisce a tavola, in base a quello che mangiamo.

Quasi anticipando questo ragionamento, Gesù invita gli ascoltatori a rendersi conto che c’è cibo e cibo:

«I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia» (Gv 6,49-50).

Aveva iniziato la Sua catechesi eucaristica con l’invito a «darsi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna», e adesso pone tutti davanti all’evidenza:

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui… colui che mangia me vivrà per me» (Gv 6,56-57).

Mangiare è comunione

Già l’atto stesso del mangiare crea comunione, compagnia, fraternità… ma l’Eucaristia “escogitata” da Gesù crea addirittura identificazione.

Gesù non si accontenta di rimanere a fianco dei suoi discepoli, ma li invita addirittura a cibarsi di Lui, per diventare un tutt’uno, una cosa sola con Lui.

E – se il nostro corpo trasforma il cibo che mangiamo e, assimilandolo, lo fa diventare parte di noi – Gesù opera una trasformazione inversa: facendosi nostro cibo ci “assimila” e ci unisce a Lui.

È un mistero grande, sì, ma attrattivo e stimolante.

Parole dure perché definitive

Le parole di Gesù non sono dure perché fatte di alta filosofia e teologia, ma perché chiaramente decisive, ovvero: parole che spingono a decidersi per Lui:

«se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (Gv 6,53).

Insomma, non c’è altra possibilità: non si può essere discepoli di questo Maestro se non facendolo diventare essenziale per noi, come il cibo lo è per la vita del corpo.

Non si può seguire questo Rabbì a giorni alterni, a seconda di ciò che ci fa più comodo:

«Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» (Mt 12,30).

Un Dio che ci lascia liberi per liberarci

Gesù sa che la sua proposta è pericolosa, e lo porterà alla rovina, ma non si ferma: il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (uno dei più eclatanti e “di successo”) segna paradossalmente l’inizio della Sua fine.

L’uomo è così da sempre: cerca Dio finché lo esaudisce, ma quando diventa esigente lo abbandona.

E non sono solo i superstiziosi e gli approfittatori ad andare in crisi e tornare sui propri passi:

«molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui».

Ma Gesù non è un “collezionista” di gente dipendente, non è lo stratega del “politicamente corretto” che cerca di accontentare tutti: Lui è venuto per portare il Regno di Dio!

Ecco perché arriva – tagliente – a porre il bivio davanti al naso dei suoi più stretti seguaci e amici, i Dodici:

«Volete andarvene anche voi?»

È questo il vero amore, quello che lascia liberi, anzi: che rende liberi (come cantava Sting: «if you love somebody set them free»)!

È lo stesso tema anticipato dalla prima lettura, quando Giosuè pone il popolo di Israele – ormai entrato nella Terra Promessa – davanti ad una scelta chiara e definitiva:

«sceglietevi oggi chi servire».

È un Dio libero, che rende liberi, perché ci ama per davvero! Non vuole delle marionette da azionare con “fili” di costrizioni, paure, obblighi morali.

Decidere di credere

La risposta dell’apostolo Pietro a nome di tutti i suoi compagni è un po’ la versione giovannea della professione di fede che troviamo in Mt 16,13-19 (e negli altri Sinottici).

Pur essendo l’ultimo a scrivere (e quindi a rielaborare molto teologicamente), Giovanni conserva in questa risposta di Pietro tutta la sua autenticità, dato che la formula «tu sei il Santo di Dio» è molto più semitica rispetto a quella dei Sinottici.

Avrà bisogno di crescere ancora tanto, Pietro, nella fede e non solo, ma la sua risposta è importante.

Non ha capito nemmeno lui (e tantomeno gli altri) le parole del suo Maestro, ma una cosa la sa: solo con Lui si sta bene, ci si sente vivi, liberi, liberati.

Solo con Gesù si tocca il Cielo con un dito, si intravede il volto del Padre.

Solo in Lui c’è misericordia e perdono, per tutte le nostre fragilità (e quante volte l’ha sperimentato e ancora lo sperimenterà il “testone” scelto come capo degli Apostoli!)

Insomma, dobbiamo ancora una volta prendere esempio dalla spontaneità di questo povero pescatore di Galilea e gettarci tra le braccia del Signore, dicendogli: «dove mai potremmo andare, Signore? Chi altri ci potrebbe dare quello che ci dai tu?»

La fede è una decisione: non si può aspettare di capire tutto per credere.

Bisogna decidere di credere: solo allora si trova il senso delle cose, di sé, degli altri, di Dio.