Un’epidemia da non fermare. 2ª Domenica del Tempo Ordinario (B)

l'annuncio di fede è contagioso come un'epidemia

Nel mezzo di questa pandemia, l’unico “contagio” che siamo chiamati a favorire, l’unica “epidemia” che non dobbiamo fermare, è l’annuncio gioioso della fede.

Letture: 1Sam 3,3-10.19; Sal 39 (40); 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42

Siamo tornati nel Tempo Ordinario, ma la Liturgia ci ribadisce subito che – quando c’è di mezzo il Signore – nulla è più straordinario del nostro quotidiano, e le pagine della Scrittura che ci sono offerte questa domenica ne sono la conferma: cosa c’è di più unico e straordinario (per un credente) del primo incontro con il Signore?

Ogni vita è vocazione

La vocazione del piccolo Samuele nella prima lettura e quella dei primi discepoli nel vangelo sono pagine di assoluto splendore, nelle quali specchiarsi e rileggere la propria esperienza.

Quando si parla di vocazione – però – non pensate sempre e solo ai preti e alle suore! Ogni vita umana è vocazione! Cari sposi cristiani, non vi fa ardere il cuore ripensare al giorno che vi siete conosciuti, innamorati, fidanzati?

La ricchezza della testimonianza

Nel quarto vangelo, l’inizio della vicenda dei primi discepoli non è esattamente una “chiamata” (come ce la raccontano i Sinottici), ma una sorta di “reazione a catena”, di “contagio” repentino, di “epidemia”.

Questo diverso modo di raccontare da parte dei quattro evangelisti non ci deve assolutamente far malignare sulla fedeltà e sulla veridicità dei loro racconti: dobbiamo sempre ricordare che i Vangeli non sono libri di storia, né biografie filologicamente accurate di Gesù, ma testimonianze personali di un incontro che ha cambiato la vita di chi l’ha vissuto e che vuole cambiare la vita di chi legge e ascolta.

Ce lo dice bene Giovanni, alla fine del suo vangelo:

Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome (Gv 20,30-31).

L’epidemia dell’annuncio

Nel segnalare la particolarità del racconto giovanneo rispetto ai Sinottici, ho usato una parola che in questi mesi non solo ci spaventa, ma ormai ci infastidisce: “epidemia”.

Certo, a quasi un anno ormai dall’inizio di questo terribile incubo, non è la parola più gettonata, e – se si può – la si evita: sono mesi che il Coronavirus ci obbliga a fare i conti con la nostra fragilità, ci ruba non solo gli affetti più cari ma anche le cose più belle.

Però credo che non ci sia una similitudine migliore per descrivere sinteticamente il modo in cui l’evangelista Giovanni ci presenta l’inizio dell’avventura dei primi discepoli di Gesù, perché la diffusione dell’annuncio avviene come una sorta di “contagio” inarrestabile:

  • Giovanni Battista indica Gesù che passa, e due dei suoi discepoli lo seguono;
  • Gesù invita i due discepoli ad andare con lui e loro vanno a casa sua;
  • Andrea incontra il fratello Simone e lo conduce da Gesù.

Il brano di oggi si ferma qui, ma i “contagi” proseguono il giorno dopo, quando Gesù incontra Filippo e lo invita a seguirlo, e questi trova Natanaele e lo “contagia”, invitandolo ad andare con lui da Gesù, e usa le stesse parole del Maestro: «Vieni e vedi» (cfr Gv 1,43-46).

Chi ci ha contagiato?

Questo modo di raccontare la propria vocazione (con tutta probabilità, l’altro discepolo oltre ad Andrea era proprio l’evangelista) ci fa subito chiedere: chi ti ha “contagiato”? Chi ti ha parlato di Gesù per la prima volta nella tua vita? Chi te l’ha annunciato e te l’ha fatto conoscere?

Cerchiamo di andare indietro con la mente e con il cuore, per individuare dove è avvenuto il primo incontro con il Signore, e per essere grati a chi ha fatto per noi come il Battista coi suoi due discepoli, come Andrea con suo fratello Simone, come Filippo con Natanaele.

Sarà stata la nonna che ci portava in chiesa e ci insegnava a fare il Segno della Croce guidando la nostra mano? O magari la donna di cui ci siamo innamorati e ci ha fatti sposare in chiesa e poi battezzare i nostri figli, riportandoci alla fede dopo averla abbandonata da ragazzini? O forse il vecchio parroco a cui facevo il chierichetto, la suora del catechismo, il curato dell’Oratorio…

Ognuno di noi ha un testimone che l’ha “contagiato” positivamente: chiediamo al Signore di colmare di beni quella persona per averci fatto questo dono!

Il tempo necessario

In questa pandemia di Covid-19 si è spiegato molte volte che per infettarsi occorre stare a contatto per un tempo abbastanza significativo con una persona ammalata… funziona così anche per la “buona epidemia” del Vangelo! Non basta “sentir parlare” di Gesù, guardarlo passare, chiedergli come si chiama… occorre rimanere, fermarsi con Lui:

Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui.

Non si può fare esperienza di Dio se non “fermando” la nostra vita per rimanere con Lui il tempo necessario a creare quella confidenza che un rapporto di amicizia e di amore richiedono.

Quante volte – invece – per noi cristiani Gesù è solo un “accessorio”, un “soprammobile” che “spolveriamo” la domenica mattina… sembra quasi che abbiam paura di contagiarci restando con Lui, appunto… Mi torna in mente – a proposito – un passaggio del catechismo del Santo Curato d’Ars:

Ci sono alcune persone che si sprofondano completamente nella preghiera come un pesce nell’onda, perché sono tutte dedite al buon Dio. Non c’è divisione alcuna nel loro cuore. O quanto amo queste anime generose! San Francesco d’Assisi e santa Coletta vedevano nostro Signore e parlavano con lui a quel modo che noi ci parliamo gli uni agli altri.
Noi invece quante volte veniamo in chiesa senza sapere cosa dobbiamo fare o domandare! …Anzi vi sono alcuni che sembrano dire così al buon Dio: «Ho soltanto due parole da dirti, così mi sbrigherò presto e me ne andrò via da te».

(leggi il brano completo)

Un momento indimenticabile

Se non ci lasciamo comandare dalla fretta, dalle faccende, dalle preoccupazioni del mondo, e ci lasciamo coinvolgere da Dio, allora l’esperienza diventa unica e indimenticabile, come quella del primo amore, del primo primo appuntamento.

Anche per noi – come per Giovanni – quell’incontro rimane stampato e vivido nella mente e nel cuore, al punto da ricordare precisamente l’orario, i colori, gli odori:

erano circa le quattro del pomeriggio.

Se l’esperienza di Dio non è questa, se non lascia il segno, è solo una farsa, una “messa in scena” (e tante delle nostre Messe non sono altro che teatrini di attori stanchi di recitare sempre la stessa parte), e non contageremo nessuno.

Abbiamo bisogno di purificare la nostra fede, e credo che anche a noi – come ai primi due discepoli – faccia bene riflettere adeguatamente sulle prime parole che Giovanni mette sulla bocca di Gesù all’inizio del suo vangelo:

«Che cosa cercate?»

Chiediamocelo: dopo 23 anni di sacerdozio (come il sottoscritto), dopo quarant’anni di matrimonio… cosa sto cercando nella mia vita? Sto ancora cercando Cristo? Sto andando dietro a Lui perché desidero conoscerlo e stare con Lui o sono mosso semplicemente dall’inerzia e dall’abitudine?

Non fermiamo l’epidemia!

All’inizio del suo vangelo Giovanni ci suggerisce qual è la dinamica della diffusione endemica di quella “pandemia” salutare che è il Vangelo: il passaparola, il “contagio” entusiasta e reciproco, che suscita domande e fa cercare risposte:

Filippo trovò Natanaele e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret». Natanaele gli disse: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi» (Gv 1,45-46).

È come nel gioco che facevamo da bambini, il «Ce l’hai!»: può durare fintantoché chi è stato toccato si mette a rincorrere i suoi compagni di gioco e cerca di prenderli, di “contagiarli” a sua volta.

La diffusione della fede ha bisogno di un continuo “contagio”; solo allora diventerà un’epidemia di salvezza!

È per questo che noi oggi siamo cristiani, perché i nostri genitori, i nostri nonni, e tutti i cristiani che ci hanno preceduto sono “stati al gioco”, quel “gioco” stupendo che è la trasmissione della fede.

Non facciamo come quei bambini capricciosi che – una volta stanchi – si siedono per terra dicendo «io non gioco più!»

La fede non è solo un questione personale del singolo: se ci si ferma e ci si chiude in se stessi ne va della gioia di tutti gli altri!

Nome in codice…

L’incontro con Cristo è un’esperienza che ti cambia profondamente e per sempre la vita: questo è il senso del cambiare il nome a persone e luoghi, che spesso troviamo nella Bibbia (Abramo, Giacobbe, Gerusalemme…).

Così è avvenuto per Simone, che non solo è stato trasformato da pescatore di pesci in pescatore di uomini, ma è stato costituito come roccia, su cui edificare la Chiesa (cfr Mt 16,17-18).

Sono molto legato al brano evangelico di oggi, perché uno dei primi giorni di Seminario (ero un ragazzetto di 14 anni), ci capitò di leggerlo assieme durante una meditazione mattutina, e – immediatamente – a quella frase di Gesù «ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)» tutti i miei compagni si girarono verso di me e mi fecero l’occhiolino…

Insomma, dal lontano settembre 1987, “Cefa” è il mio “nome in codice”, il mio nickname tra molti preti della mia generazione con cui ho condiviso i bellissimi anni della mia formazione (e tuttora mi chiamano così).