C’è da stare allegri! 3ª Domenica di Avvento (C)

Allegria!

Ai nostri giorni si dice spesso che «c’è poco da stare allegri», invece la Liturgia ci invita alla gioia e alla letizia. Ci sarà un motivo…

Letture: Sof 3,14-18; Is 12; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18

Il motivo dominante di questa domenica è la gioia, l’allegria. Non a caso, la terza domenica di Avvento è soprannominata Gaudete, dall’incipit dell’antifona di ingresso del Messale Romano:

«Gaudete in Domino semper: iterum dico, gaudete. Dominus enim prope est».

In italiano: «Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi. Il Signore è vicino» (sono anche i primi versetti della seconda lettura di oggi).

Allegria!

Allegria!

«Allegria!» esclamava Mike Buongiorno alla fine degli anni ’90… ma – ahimè – i tempi sono cambiati.

Che motivo abbiamo per gioire? Al giorno d’oggi non si dice – sempre più spesso – «c’è poco da stare allegri»?

Pandemia, crisi economica, diseguaglianze sociali, sfiducia nel futuro… quale sarebbe la ragione per essere lieti?

Se la Liturgia insiste ogni anno con questo invito, un motivo ci sarà…

Allegri perché l’abbiamo scampata

Il primo a spiegarci perché dovremmo stare allegri è il profeta Sofonia nella prima lettura:

Il Signore ha revocato la tua condanna…

Non so se avete mai visto le scene di quei poveretti che hanno subito anni e anni di udienze processuali, e – alla fine – la Corte di Cassazione, nel terzo grado di giudizio emette una sentenza di assoluzione con formula piena… un gran sollievo, no?

Oppure: vi è mai capitato di scampare ad un incidente per un soffio? Dopo il grande spavento – ragionandoci – non c’è motivo per stappare una bottiglia di spumante? Una volta si attaccavano i quadretti “Per grazia ricevuta” nei Santuari…

Diciamo spesso «capitano tutte a me», perché siamo molto più suscettibili a memorizzare e collezionare gli episodi di sfortuna… ma se ci mettessimo ad inanellare le tante volte in cui l’abbiamo scampata

Gioiosi perché “misericordiati”

Ma – ancor di più – dovremmo elencare tutte le volte nelle quali meritavamo una bella punizione e invece ci è stata usata clemenza.

Dobbiamo sempre ricordare che nessuno di noi – davanti a Dio – potrebbe essere «assolto perché il fatto non sussiste», perché – come dice l’apostolo Paolo:

Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io (1Tm 1,15).

Il primo motivo di gioia è che siamo dei perdonati, e dovremmo far diventare nostro lo slogan dell’Apostolo:

mi è stata usata misericordia (cfr 1Tm 1,13).

Oppure il neologismo di Papa Francesco:

«Siamo dei misericordiati».

Allegri perché tabernacoli di Dio

L’altro motivo di gioia indicato dal profeta è

«Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te
è un salvatore potente».

In ebraico l’espressione «in mezzo a te» – letteralmente – si dovrebbe tradurre «nel tuo grembo»: è un’immagine materna, stupenda, che viene rivolta a una donna: la “figlia di Sion” (rappresentazione del popolo di Israele, ma – per noi cristiani – prefigurazione della vergine Maria).

Non è solo una vicinanza esteriore quella di Dio col Suo popolo: Dio è «in mezzo al Suo popolo», è diventato “uno di loro” (è il grande annuncio dell’Incarnazione: «Dio si è fatto come noi, uno di noi!»).

Ma – ancora di più – Dio abita nell’intimo di ogni credente che Lo accoglie con fede; ed è dal nostro intimo che Dio stesso gioisce e ci riempie di gioia:

«Gioirà per te,
ti rinnoverà con il suo amore,
esulterà per te con grida di gioia»
.

Così è stato per Maria, e per tutti coloro che hanno fatto spazio a Dio nella loro vita, come anche l’apostolo Paolo che – sul finire della sua esistenza – dirà:

non vivo più io, ma Cristo vive in me (Gal 2,20).

Pensiamolo in questi giorni, e soprattutto oggi, nel ripetere il ritornello del Salmo Responsoriale (che stavolta non è un Salmo, ma il capitolo 12 del profeta Isaia):

«Canta ed esulta, perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele».

Possiamo gioire perché portiamo dentro di noi – come dei tabernacoli – il Signore stesso!

Non intristirsi per nulla

Nella seconda lettura – per rimanere in questa gioia – Paolo ci raccomanda di non farci intristire da cose da nulla, e di ricordarci che Dio è più grande di ogni cosa:

Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.

Se si ha fede in Dio, se ci fidiamo che Lui ascolta le nostre preghiere, che non ci lascia mai soli, allora avremo il cuore in pace.

Per questo, quado vengono persone affrante a confessarsi, mi piace sottolineare con forza l’espressione che precede l’assoluzione:

«Dio, Padre di misericordia…
ti conceda,
mediante il ministero della Chiesa,
il perdono e la pace».

Segno distintivo: amabilità

Ancora una volta – come ricordavo nella solennità di Tutti i Santi citando il beato Piergiorgio Frassati – la carta d’identità del cristiano è l’allegria sul volto.

Per questo – sempre Paolo nella seconda lettura – ci raccomanda:

La vostra amabilità sia nota a tutti.

Il cristiano è chiamato ad essere uomo della letizia, dell’allegria, della gioia perché attende una gioia più grande: quella dell’incontro definitivo con Cristo.

La gioia dell’attesa

I cristiani sono gioiosi perché vivono nel “sabato”, ovvero: nell’attesa della domenica senza tramonto.

Ma forse l’abbiamo dimenticato, e – invece – viviamo “alla giornata”, facendo della monotonia e della noia il nostro leitmotiv.

Non stiamo attendendo più nulla… oppure viviamo di attese che immaginiamo già disilluse (viene in mente l’idea espressa da Leopardi ne Il sabato del villaggio).

Solo i bambini sanno gustare la gioia, l’impazienza e la trepidazione nella vigilia di un giorno di festa (Santa Lucia, Natale…): ecco perché dobbiamo saper attendere e accogliere il Regno di Dio come i bambini (cfr Lc 18,17).

La gioia è possibile se lasciamo spazio alla speranza, ad un sano “ottimismo cristiano”.

Un ottimismo concreto

Proprio di questo sano e concreto ottimismo troviamo le “istruzioni” nel vangelo di oggi, perché a nessuno è preclusa la possibilità di entrare nella gioia del Signore.

Potremmo metterci in fila anche noi da Giovanni Battista assieme alla gente di allora, i pubblicani, i soldati, e chiedere:

«Che cosa dobbiamo fare?»

A nessuno il Battista ha risposto «mi spiace, non c’è nulla da fare».

Nessuno è escluso. Per tutti e per ognuno c’è una parola, un consiglio, una possibilità di trovare la strada dell’incamminarsi verso il Signore, del fargli spazio nella nostra vita.

Non c’è ostacolo o scusa che tenga: se vogliamo, quale sia la nostra professione (fosse anche il soldato!), un modo per convertirci al Vangelo c’è, anche per noi.

La semplicità della conversione

Quello che mi colpisce di più nel dialogo tra il Battista e la gente che lo interroga è la semplicità dei suoi consigli.

Giovanni non comanda cose strane e inapplicabili (digiuni impossibili, penitenze estenuanti…): chiede a ciascuno di “non uscire dalle righe”, di vivere il proprio mestiere con semplicità, umiltà, moderazione, giustizia, senso del dovere e spirito di servizio:

«Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato… Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».

E chiede la carità, la condivisione:

«Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».

Anche per noi la giustizia sta nel non approfittare del posto che occupiamo nel mondo, nella società, nella comunità cristiana, nell’umiltà del contentarci della nostra “paga”, nella capacità di condividere (noi che – nonostante la crisi – viviamo un’opulenza che ci fa sprecare).

È l’applicazione concreta del richiamo al ripristino dell’uguaglianza sociale che risuonava domenica scorsa nelle parole di Isaia riprese dal Battista:

«ogni monte sia abbassato, ogni valle sia colmata…».

Non è complicato essere cristiani

Essere cristiani (ed esserlo in modo gioioso) non è complicato: è alla portata della nostra quotidianità.

Non è complicato… ma è impegnativo!

Sì, perché ci impegna (cioè ci chiede di “darci in pegno”) a mantenere i propositi fatti, ad essere uomini di parola e concreti, a non “essere tutti più buoni” solo a Natale, ma a far diventare certe scelte di carità e condivisione uno stile concreto e quotidiano di vita.

È questo che ci rende allegri e felici? O cos’altro?