La vera religiosità
Fede e religiosità non sono la stessa cosa: spesso si rischia di ridurre il proprio essere cristiani a dei gesti che rasentano la superstizione. Stiamo attenti.
Omelia per mercoledì 20 settembre 2023
Letture: 1Tm 3,14-16; Sal 110 (111); Lc 7,31-35
Il piccolo brano della prima lettera a Timoteo che ascoltiamo oggi termina con un inno cristologico che probabilmente condensa il «Credo» delle prime comunità cristiane.
Come formulazione, potremmo paragonarlo a quelli che noi abbiamo imparato da piccoli nel Catechismo di Pio X come «I due misteri principali della fede».
Colonna e sostegno
Ovviamente, in questo inno non sono riassunte tutte le verità di fede, ma solo alcuni dei punti che Paolo raccomanda a Timoteo e ai ministri di tener presente perché la fede sia solida come «la casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità».
La fede del singolo si regge su quella della Chiesa universale, paragonata a un edificio solido e ben strutturato architettonicamente.
Il mistero della vera religiosità
Quello che ha attirato la mia attenzione in questo brano, però, è l’espressione che introduce il suddetto inno cristologico:
Non vi è alcun dubbio che grande è il mistero della vera religiosità…
Se penso a cosa si intende oggi per “religiosità” mi vengono i brividi…
Fede e religione
La definizione dei principali dizionari ci lascia intendere che dietro il vocabolo religiosità si assommano tanti sentimenti e atteggiamenti disparati, e che il termine è divenuto di uso comune anche per indicare ambiti non necessariamente legati ad una religione storica.
Senza andare a sottolineare i suddetti usi profani, credo che anche dentro il nostro ambito cristiano si faccia spesso confusione tra la fede e la religiosità delle persone.
Ci può essere una fede senza religiosità?
Di per se no, perché – anche quando per “fede” si intendano i profondi convincimenti del cuore di un singolo – essi vi si sono instaurati per trasmissione concreta da parte di un altro soggetto, e questo non può avvenire se non attraverso manifestazioni concrete della fede, come direbbe san Giacomo:
«mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (cfr Gc 2,14-26)
Ma le “opere” di cui parla l’apostolo non sono semplici gesti liturgici o devozionali: sono gesti di reale “incarnazione” della fede, in una carità fattiva.
Se da piccoli le nostre nonne ci hanno insegnato a «mandare il bacino a Gesù» e ad «accendere la candela alla madonnina», non è sicuramente bastato questo per fare di noi dei credenti.
Religiosità, devozione, superstizione
Viviamo in un mondo che – dopo un periodo “iconoclasta” verso tutto ciò che è religioso – sta recuperando in modo forte la ricerca del “sacro”, ma in modo del tutto esteriore, e spesso anche blasfemo.
Si scambiano per fede atteggiamenti che – ricalcando gesti devozionali del passato (che erano permeati di fede sincera) – sono svuotati del loro riferimento a contenuti veri e solidi di fede; perciò, non sono altro che fissazioni esteriori o, peggio, segni di vera e propria superstizione.
La conversione necessaria
Perciò credo che tutti quanti (compresi quei sacerdoti ultra-tradizionalisti e vanno a recuperare abiti, atteggiamenti e cimeli di un passato che non ha più senso di esistere) dobbiamo operare una conversione sincera.
Abbiamo bisogno di capire che non si può essere persone religiose senza avere una fede salda e profonda, la quale non si può basare su altre certezze e altri fondamenti che non quelli che ci hanno trasmesso da secoli:
Dio si è fatto uomo assumendo la nostra carne mortale per salvarci dal peccato attraverso la passione e morte del Suo Figlio, e ci ha donato la speranza (che è già certezza) di poter condividere il Suo destino di gloria in eterno.
Questo è il Kerygma, il deposito autentico della fede.
Se i nostri gesti di religiosità dicono questo e, soprattutto, se sono gesti non solo rituali, ma di concreta carità, ben vengano, altrimenti sono tutte “carnevalate” che fanno ridere la gente.