L’Amore che taglia. 28ª Domenica del Tempo Ordinario (B)

La Parola di Dio è più tagliente di una spada a doppio taglio

Come un medico col bisturi, a volte la Parola di Dio ci taglia a metà: è lo sguardo di Gesù che ci conosce nel profondo del cuore e sa cosa è bene per noi

Letture: Sap 7,7-11; Sal 90; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30

Per introdurre la riflessione di questa domenica, parto dall’immagine potente della seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei:

La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.

Questa similitudine mi sembra descrivere in modo preciso il fatto raccontato nel brano evangelico, che ci presenta la vicenda conosciuta come la storia del “giovane ricco”.

Infatti, l’evangelista Marco (e solo lui), dopo il dialogo iniziale riguardante l’osservanza dei Comandamenti, annota:

Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò, e gli disse…

La Parola che ti taglia in due

Lo sguardo di Gesù è penetrante e “tagliente”, proprio come quello di una spada a doppio taglio e penetra davvero fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito… e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.

Perché Gesù è il Verbo fatto carne (cfr Gv 1,14), la Parola di Dio che conosce, illumina e svela ogni segreto dei cuori (cfr Mc 2,8, Lc 2,35 e Lc 12,2).

Quello di Gesù – però – non è uno sguardo inquisitore, una sorta di “radiografia” delle intenzioni umane: è – invece – uno sguardo pieno di Amore.

I tagli che fanno bene

Il verbo che la traduzione italiana ha reso con «lo amò», in greco è ἀγαπἀω (agapào), un termine che è usato principalmente nel linguaggio biblico (e – in particolare – cristiano), e che non ha nulla a che vedere con la nostra bislacca concezione di amore o affetto.

L’agàpe è il sentimento di chi vuole il bene dell’altro prima del proprio, di chi è disposto a soffrire e – se occorre – a far soffrire, per un bene più grande: quello della persona amata.

Tornando al tema del tagliare, potremmo dire che un medico, quando usa il bisturi, taglia (a volte – addirittura – amputa, come dicevamo qualche domenica fa), e quindi procura dolore fisico al suo paziente…

Ma lo fa per un bene maggiore: incidendo e tagliando la parte malata (assieme a tutte le cure necessarie), dà il via al processo di guarigione dell’ammalato.

Cosa bisogna tagliare?

Guardando dentro il cuore di quel tale che gli è corso incontro, Gesù vede buone intenzioni, grandi prospettive, ma anche un grande ostacolo, una zavorra pesantissima ancorata con funi resistenti al cuore di quell’uomo: si tratta delle sue ricchezze.

Abbiamo riflettuto più volte sul tema della ricchezza nel vangelo: non è tanto il possedere dei beni che Gesù condanna, ma il modo in cui li si possiede, in cui ci si “lega” ad essi.

La persona che è corsa da Gesù in cerca delle “istruzioni” per avere la vita eterna era così “ancorata” alle sue cose, da non riuscire a tagliare quelle “funi” e a spiccare finalmente il volo, come una nave a cui non si slegano gli ormeggi o una mongolfiera che non taglia le corde delle zavorre:

…a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.

Ciò che conta nella nostra vita

Non dobbiamo pensare sempre e solo alle cose e ai soldi quando ci troviamo davanti alla storia di quest’uomo e siamo invitati a confrontarci con essa: non è che basta essere dei “poveracci” economicamente per poter entrare nel Regno dei cieli.

A volte ci sono persone estremamente ricche ma anche estremamente generose e distaccate dalle loro proprietà, e altre nullatenenti che però hanno un cuore avido e incapace di aprirsi agli altri e al mondo…

I beni posseduti non sono solo i soldi, le case, i campi, le auto… siamo anzitutto noi stessi, il nostro io, le nostre idee, le nostre convinzioni e fissazioni, alle quali difficilmente sappiamo rinunciare.

La ricchezza “ostacolante” di cui Gesù ci segnala il pericolo è – quindi – anzitutto la nostra superbia, il nostro orgoglio, l’attaccamento e l’arroccamento alle nostre certezze, la nostra mancanza di umiltà.

Cosa “vale” davvero nella nostra vita?

Sapremmo arrivare a dire – come Salomone nella prima lettura – «preferii la sapienza a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto… L’ho amata più della salute e della bellezza…»?

O – come l’apostolo Paolo nella lettera ai Filippesi – «ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura»?

Ricchi o umili?

Ascoltando il sempre illuminante commento di don Fabio Rosini al vangelo di questa domenica, ho trovato un’immagine molto bella di alcuni biblisti e filologi che non avevo mai sentito: la «cruna dell’ago» sarebbe – in realtà – la porta più piccola delle città fortificate, l’ultima ad essere chiusa la sera…

Una porta così piccola, che un cammello poteva varcare solo se totalmente privo di carico (e mercanzie) sulle gobbe, e piegando le zampe per chinarsi e riuscire ad entrare.

È un’immagine molto bella, che mi ricorda anche quella della piccolissima porta della basilica di Betlemme, detta – appunto – “Porta dell’umiltà”.

Per poter entrare nel Regno dei cieli, occorre scaricarsi di tutte le “zavorre”, togliersi di dosso tutte le proprie sicurezze e certezze, e piegare ginocchia e schiena, in un atteggiamento di totale umiltà.

Le ricchezze non sono da buttare

Come dicevo sopra, le ricchezze in sé non sono un danno, o «lo sterco del demonio» (come le definiva san Francesco di Assisi), ma vanno usate bene: per essere donate – appunto.

Per questo, Gesù non invita il tale che l’ha interrogato a buttare via tutto quello che ha:

«Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri…»

L’invito è ad una ridistribuzione equa, mirata a ripristinare la giustizia sociale, a riparare i danni causati dall’avidità umana che rende intere popolazioni non solo povere di mezzi, ma prive della loro dignità.

Il vero tesoro

La conseguenza di questa “spogliazione” e redistribuzione dei beni, è il guadagno di un’altra ricchezza:

«avrai un tesoro in cielo»;

una ricchezza vera, un tesoro che nessuno può minacciare o intaccare (cfr Mt 6,19-20).

Nemmeno i discepoli avevano capito questa cosa:

Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito».

C’è sempre la tentazione di seguire Cristo con un velo di risentimento nel cuore, con ancora un “legaccio” che non siamo riusciti a tagliare del tutto, con una sorta di “cordone ombelicale” che è ancora attaccato al nostro vecchio modo di intendere le cose.

Liberarsi dal «non si sa mai»

Vorremmo mettere in pratica il vangelo fino in fondo, in modo radicale, ma teniamo sempre “nel cassetto” una sorta di “assicurazione sulla vita”, «casomai Dio decidesse diversamente».

È la mentalità di quel bruttissimo proverbio che recita «aiutati che il Ciel t’aiuta», che mi sembra sempre essere l’esatto contrario della fiducia genuina e spensierata nella Divina Provvidenza.

La vera ricchezza è saper tagliare via anche questo ultimo “filo” (che spesso è d’acciaio) e consegnarsi totalmente nelle mani del Signore, fidandosi delle Sue promesse:

«In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli… per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora… cento volte tanto… e la vita eterna nel tempo che verrà».

È una promessa che ho già visto realizzarsi tante volte nella mia vita, soprattutto nei difficili momenti del cambio di destinazione pastorale (sono già al terzo)…

Cento volte tanto, e anche di più

Non è stato facile lasciare la Comunità di Laxolo, dove avevo trovato una famiglia affettuosa, per “sradicarmi” e trapiantarmi a Sotto il Monte

Ma dopo pochi giorni di permanenza qui sto già sperimentando che il Signore non mi ha tolto proprio niente, anzi: mi sta facendo trovare nuovi fratelli e sorelle pronti ad accogliermi e accompagnarmi.

E questi si aggiungono a quelli che ho ricevuto nelle Parrocchie di Santa Maria delle Grazie in Bergamo e di Palazzago (dove ho fatto il Seminarista), di Loreto in Bergamo e Rozzano Sant’Angelo (dove ho fatto il curato).

Davvero: cento volte tanto, e anche di più!