Siamo interconnessi. 23ª Domenica del Tempo Ordinario (A)

interconnessi

Un cristiano non può applicare la regola del «vivi e lascia vivere», perché siamo tutti “interconnessi”. Dalla salvezza di uno solo dipende quella di tutti.

Letture: Ez 33,7-9; Sal 94 (95); Rm 13,8-10; Mt 18,15-20

Quando ascoltiamo o leggiamo qualcosa, ci rimane sempre impresso ciò che più attira la nostra attenzione… e così – avidi come siamo di far notare agli altri i loro difetti – oggi siamo subito rapiti da quel:

«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo».

Quanto ci piace rimproverare e rintuzzare gli altri quando sbagliano, mamma mia!

E che bello che anche Gesù ci dia il permesso di non mandarle a dire a chi ci offende! Evviva!

Capire “Tone” per “bidone”

Calma, calma! Non è questo l’intento di Gesù. Non facciamo dire al Vangelo ciò che non dice!

Prima di tutto, va sottolineato che alcuni manoscritti omettono il «contro di te». Questo – forse – per dirci che, in quel caso, non saremmo proprio le persone più adatte ad esercitare la correzione (chi di noi riuscirebbe a rimanere calmo e imparziale con chi gli ha fatto del male? Saremmo delle furie!).

E poi, sappiamo bene cosa ci ha insegnato Gesù riguardo al male che riceviamo dagli altri:

«A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica» (Lc 6,29);


«Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai»» (Lc 17,3-4).

Il vero messaggio

Per capire cosa ci sia in gioco nell’istruzione di Gesù che ascoltiamo oggi, vorrei richiamare l’attenzione su un’espressione che dovrebbe quanto meno incuriosirci:

«se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello».

Matteo – di solito – usa il vocabolo “guadagnare”, in contesti economici (per esempio nella parabola dei talenti). Ma già nel brano che abbiamo ascoltato domenica scorsa l’aveva messo in parallelo a “perdere”, a riguardo della vita:

«quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?» (Mt 16,26)

È chiaro – quindi – quale sia qui il significato di “guadagnare”, e anche quale sia lo scopo della correzione fraterna insegnata da Gesù: non l’accusa del peccatore – fine a se stessa – ma la sua salvezza.

Se non “guadagni” il tuo fratello, se non lo salvi come fosse il tuo “tesoro” più prezioso, l’alternativa è che tu lo perda (e che lui si perda)!

E questo dovrebbe farci preoccupare, tanto! Come uomini, ma – soprattutto – come figli di Dio.

Che nessuno si perda

Infatti, nel versetto precedente al brano odierno (che riassume la versione matteana della parabola della pecorella smarrita), troviamo queste parole:

«Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda» (Mt 18,14).

Se siamo figli del Padre Celeste, dobbiamo avere il terrore che uno dei nostri fratelli possa dannarsi!

Quanto è diffuso invece – anche tra i cristiani – il «ciascuno per sé», il «vivi e lascia vivere» (e – in bergamasco – il tremendo «ma che i se rànge! I vàghe a l’inferno!»).

Si tace per “quieto vivere”…

Abbiamo imparato – ormai da tempo – a non occuparci delle vicende degli altri… Anzitutto «per quieto vivere»: al giorno d’oggi fare un’osservazione a qualcuno può essere pericoloso.

Ad esempio: quando vediamo un adolescente che – per ammazzare la noia – commette vandalismi, cosa facciamo? Scuotiamo la testa e ce ne andiamo indignati.

Anni fa sarebbe bastato uno sguardo torvo per fargli capire che stava sbagliando, ma oggi… un piccolo richiamo basterebbe per innescare un putiferio da parte dei suoi genitori, che verrebbero subito a urlarci dietro «lei come si permette di richiamare mio figlio? Si faccia gli affari suoi!»

Non c’è più un senso civico comune e un’alleanza educativa.

Si tace per menefreghismo

Ma spesso ci disinteressiamo degli altri perché non ci importa nulla di loro: siamo presi da quella «globalizzazione dell’indifferenza» che tante volte Papa Francesco ha denunciato.

Se fosse nostro figlio a fare il teppista non gli diremmo niente? E se stesse finendo sotto un’auto che procede a tutta velocità non gli urleremmo – terrorizzati – di scansarsi?

Certo, poi – con tutta probabilità – ci sentiremmo ribattere: «Non rompere! L’avevo vista! Sono grande abbastanza!», ma certamente non ci esimeremmo dal metterlo in guardia di fronte ad un pericolo, perché gli vogliamo bene.

Perciò è chiaro: se non richiamiamo una persona che sbaglia non è solo «per quieto vivere», ma soprattutto perché non ci sta a cuore, non è “preziosa” per noi: non la sentiamo come un nostro fratello.

Non ci importa di “guadagnarla”, perché non è il nostro “tesoro”, come invece lo è un figlio per i suoi genitori (e ogni essere umano per Dio).

O tutti o nessuno!

Non dimenticando che il nostro brano si trova a metà del capitolo 18 di Matteo (che è comunemente intitolato «Il Discorso Ecclesiale» o «comunitario»), c’è un altro aspetto da sottolineare: l’importanza della comunione fraterna.

I nostri fratelli ci devono interessare non solo perché stanno a cuore a Dio (che è Padre nostro e loro), ma perché la fraternità umana è il progetto stesso di Dio.

Dio non ha creato un mondo di single, ma degli esseri di relazione, tutti strettamente “interconnessi” tra di loro.

È una considerazione che dovremmo fare spesso, noi che viviamo in una società malata di individualismo, che ha trasformato anche la religione in un “fatto privato”.

Qualche anno fa, quando ero curato a Rozzano, il Parroco (don Mario Morè), aveva scelto come frase-guida per l’anno pastorale «Non si può essere cristiani da soli».

E io aggiungo: «Non si può essere uomini da soli». Dio ci ha creati come esseri di relazione: non ne possiamo fare a meno.

Abbiamo bisogno degli altri! Leggiamo – ad esempio – il brano stupendo della Genesi che descrive lo spaesamento di Adamo in preda a una solitudine immensa, finché Dio non gli mette di fronte Eva (cfr Gen 2,18-24).

Nessuno di noi è autosufficiente, in nulla. Non solo a livello materiale, ma anche e soprattutto spirituale. Provate – anche solo per un attimo – ad immaginare di essere rimasti l’unico essere umano sulla faccia della terra… impazzireste subito!

Perciò non è la stessa cosa che io cammini da solo o assieme ad una comunità di fratelli.

Siamo responsabili della sorte dei nostri fratelli!

È una conversione del cuore e della mente di cui i cristiani di oggi hanno davvero bisogno.

Per i figli di Dio dire «pochi ma buoni» è una bestemmia, perché Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tim 2,4).

Quando ci presenteremo al cospetto dell’Onnipotente, Egli non ci chiederà se siamo andati a Messa la domenica o se abbiamo fatto le offerte per le Missioni… ci chiederà, come quel giorno a Caino:

«Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9).

O anche, secondo il monito tremendo ascoltato nella prima lettura:

«il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te».

Siamo tutti connessi

Infatti, il “guadagnare” la salvezza del fratello è presentata come una cosa di così vitale importanza da coinvolgere non solo il singolo, ma poi altre persone e – infine – l’intera Comunità, in un disperato tentativo di conservare l’unità!

«In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo»

Cosa ci fa qui questo richiamo al dono «delle chiavi» fatto a Pietro (che abbiamo meditato due domeniche fa)? Sembra fuori contesto…

E invece no: sta proprio a sottolineare l’importanza dello spirito comunitario. Andare (o non andare) d’accordo – per i cristiani – non è solo una questione tra due persone, ma ha effetti benefici (o deleteri) su tutta la Comunità, che si rifletteranno nel Regno dei Cieli!

Dobbiamo capire che siamo così “interconnessi” tra noi, che la salvezza o la perdizione di uno solo riguarda tutti.

Noi cristiani crediamo nella «comunione dei santi», ovvero nella condivisione di tutte le grazie (e – purtroppo – anche delle disgrazie) della Comunità, sia quella terrena che quella celeste. Lo spiega bene san Paolo, descrivendo la Chiesa come un corpo:

«Dio ha disposto il corpo… perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (cfr 1Cor 12,24-26).

Perciò – di nuovo – alla fine della nostra vita il Signore ci chiederà se abbiamo fatto di tutto per “ricucire” gli strappi, per ricreare quelle “connessioni” che tra di noi si sono sfilacciate o si sono rotte.

La sfida

Gesù sa quanto sia faticoso (e quasi impossibile) per noi realizzare questa comunione, perciò sembra lanciarci quasi una sfida:

«In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

Come se ci dicesse: «se voi riuscirete ad essere concordi, io vi prometto di esaudire ogni vostra richiesta».

Spesso mi chiedono – in tono di rimprovero e contestazione – come mai Dio non ascolti le nostre preghiere (ad esempio quella indimenticabile di Papa Francesco, tutto solo in Piazza san Pietro, durante la pandemia).

Io rispondo (a me stesso, prima che al mio interlocutore) che il motivo è che non siamo abbastanza concordi nel pregare.

La promessa del Padre di ascoltare ed esaudire le nostre preghiere è legata a doppio filo al nostro essere «riuniti nel nome di Gesù», cioè “connessi” tra di noi (come veri fratelli) e “connessi” con Lui (come veri figli).

È questo il motivo per il quale la Liturgia ci fa scambiare un segno di pace durante quella che è la più grande di tutte le preghiere: l’Eucaristia, il “grazie” di Cristo al Padre, nell’offerta della Sua vita per noi.

Siamo sinceri: quante volte si realizzano realmente queste condizioni di vera e reale “connessione”? Proviamo a pensarci. Non solo in una comunità cristiana (dove – invece – regnano liti, invidie, gelosie…), ma – prima ancora – nella più piccola “cellula” della Chiesa: la famiglia.

Quante volte si riesce ad essere «d’accordo» tra marito e moglie, tra genitori e figli? E quando mai si riesce ancora a riunire tutta la famiglia per pregare, come si faceva una volta?

Che il Signore ci aiuti prendere coscienza del bisogno di comunione che c’è, e a rinsaldare quelle “connessioni” che sono la condizione e il segno distintivo del nostro essere suoi discepoli (cfr Gv 13,35).