Schiavi del peccato o liberi servitori della giustizia?

Schiavi del peccato o liberi servitori della giustizia?

Paolo usa l’immagine forte della schiavitù nei confronti della giustizia: è un’iperbole per descrivere l’obbedienza totale alla legge dell’Amore di Dio.

Omelia per mercoledì 25 ottobre 2023

Letture: Rm 6,12-18; Sal 123 (124); Lc 12,39-48

Il brano del vangelo e quello della prima lettura oggi si illuminano a vicenda.

Paolo, mettendo a confronto la condizione di schiavitù dell’uomo quando regnava solo la Legge con quella di libertà conquistata dalla grazia di Dio in Cristo Gesù, ci esorta a non prendere questa libertà come una scusante o un pretesto per poter fare quello che vogliamo:

Che dunque? Ci metteremo a peccare perché non siamo sotto la Legge, ma sotto la grazia? È assurdo!

Schiavi del peccato

Fraintendere la libertà come libero arbitrio (ovvero: la possibilità di fare quello che vogliamo) non ci rende affatto liberi, ma schiavi delle nostre voglie e passioni, e del peccato:

Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia?

Schiavi della giustizia

Il ragionamento dell’apostolo procede con un’immagine forte e singolare: quella della schiavitù nei confronti della giustizia:

eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia.

È un’iperbole per descrivere l’obbedienza totale alla legge dell’Amore di Dio insegnataci da Cristo Gesù.

Liberati per restare liberi

Nella lettera ai Galati aveva già esposto in modo convinto questo pensiero:

Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù...

Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri (cfr Gal 5,1.13-14).

Obbedienza e servizio

A noi non piace affatto obbedire, perché lo riteniamo un’imposizione, una privazione della nostra libertà.

Ma l’obbedienza cristiana – rappresentata qui da Paolo come “schiavitù” nei confronti della giustizia – è una decisione totalmente libera, non l’accettazione passiva di un’imposizione (dice, infatti, «avete obbedito di cuore»).

È quella forma di “schiavitù” che si esprime nel mettersi al servizio della persona amata, e che trova la sua espressione più bella nella risposta di Maria all’annuncio dell’angelo:

«Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38).

Una schiavitù che rende liberi

Obbedienza, infatti, viene dal latino ob-audire, cioè: «mettersi in attento ascolto di chi mi sta davanti». È un atteggiamento di premura, di rispetto generato dall’amore per la persona che mi sta di fronte.

L’iperbole di Paolo, perciò, è un’immagine potente per esprimere la forza dell’Amore, che non ci fa sentire schiavi, ma servi devoti della persona amata, e quindi liberi e capaci di amare liberamente.

Una libertà così grande richiede una responsabilità ancora maggiore.

Grandi responsabilità

Qui entra in gioco l’immagine del vangelo, che ha per finale il monito fortissimo:

«A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».

Gesù stigmatizza l’atteggiamento del servo a cui il padrone ha affidato la sua casa e tutti i suoi averi ma – vedendo che il padrone tarda a venire – si comporta da irresponsabile.

Quel servo non ha capito l’infinita fiducia che il suo padrone ha riposto in lui e – ritenendosi semplicemente uno schiavo sfruttato – vuole emanciparsi, divenendo, così, schiavo delle sue voglie e gozzoviglie.

È l’immagine di tanti cristiani che non hanno capito la libertà immensa che il Signore ha dato loro, ponendo nelle loro mani il Suo Regno e tutti i Suoi beni, ma vivono il rapporto con Dio come un gravame e una responsabilità opprimente, perciò, si comportano come quei dipendenti che fingono di lavorare solo quando sono sotto gli occhi del padrone ma – appena quello si allontana – si mettono a perdere tempo.

Oppure, tornando all’assurdità condannata dell’apostolo Paolo (mettersi a peccare perché non si è più sotto la Legge), vivono il loro essere cristiani come una specie di continuo “giochetto al ribasso”, dicendo «tanto Dio è misericordioso…»

La pace nell’obbedienza

Siamo chiamati a riconoscere l’immensa libertà che Dio ci ha dato proprio facendone buon uso, nell’obbedienza fedele e premurosa, non fuggendo dalle nostre responsabilità.

Vissuta così, l’obbedienza nei confronti della volontà di Dio non è pesante, ma liberante, e fonte di una profonda pace e serenità nel cuore, proprio come ci ha insegnato il nostro Papa Giovanni, che ne fece il motto della sua vita:

Motto del mio stemma le parole «Oboedientia et pax», che il padre Cesare Baronio pronunciava tutti i giorni baciando in San Pietro il piede dell’Apostolo.1 Queste parole sono un po’ la mia storia e la mia vita.

(Giovanni XXIII, Il Giornale dell’Anima, 638, San Paolo 200013)

  1. Cfr Angelo Roncalli, Il Cardinale Cesare Baronio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1961, 46. ↩︎